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Introduzione
L’esperienza vissuta all’interno del convento della Sacra Croce aveva ricucito sulla pelle di Ivonne un carattere fuori dall’ordinario. Confrontarmi con il suo racconto mi indusse a smontare idee maturate da archetipi puerili in completa dissonanza con il mio presente. Il nostro incontro mi lasciò in preda a un senso di responsabilità che mi aveva plagiato la mente, un dovere dal quale non potevo esimermi: era arrivato il momento in cui dovevo essere io la corrente che trascina via ogni cosa. Dovevo farlo mettendo in comunione l’esistenza delle persone che avevano incrociato il mio cammino. Tessere di un mosaico guidate dalla forza d’attrazione. Pezzi unici allineati dall’universo. Personalità modellate dall’angoscia, dai sogni e dalla ribellione, congiunte in una massa d’acqua che irrompe gli argini spazzando via la rassegnazione e annientando ogni paradigma.
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Capitolo 11
CONIUNCTIO

Roberto Puccio
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«Che ne pensi di sistemare il pick-up?»
Alex era immerso nella pulizia di una videocamera di sorveglianza e sembrava che non mi ascoltasse. Attento, brandiva un giravite minuscolo, un panno per occhiali e uno spray detergente. In realtà, dopo quattro notti consecutive trascorse dentro il bar, questo suo modo di fare l’avevo già conosciuto e non era altro che un sistema per ponderare. Durante il giorno, mentre gestiva i suoi traffici illeciti, girovagavo per i luoghi circostanti e mi fermavo a scrivere tutte le volte che ne percepivo la necessità. La sera, come se qualcuno avesse deciso per noi, tornavo in piazza e lo trovavo con uno spinello in bocca ad aspettarmi fuori dal locale. Notte dopo notte, ci siamo raccontati ogni cosa, condividendo gioie, dolori, canne e cicchetti di rum. Nonostante si riducesse come una pezza, la pulizia dei suoi marchingegni era come una preghiera prima di andare a letto.
«Il motore è fuso e ci vogliono almeno due copertoni nuovi se non vogliamo finire fuori strada sulla prima curva».
«Questo non è un problema, posso procurarmi del denaro e pagare la riparazione».
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«Dragan, falla finita! Lo so che hai dei contanti e se avessi voluto te li avrei sottratti senza lasciare traccia, ma ho un difetto: non sono quel tipo di cane che morde il più stracciato. E comunque, se hai trascorso quattro notti qui vuol dire che ti fidi di me… Non chiedermi perché, ma non vglio deluderti. Buonanotte».
«Aspetta un attimo! Dovrei sentirmi lusingato per questo? O forse in debito perché mi stai graziando?»
«Forse! È la prima volta che mi capita di riservare un trattamento del genere a qualcuno».
«Anch’io non vorrei deluderti ma, oltre la fiducia, se rimanessi qui potrebbe trattarsi di una mancanza di alternative. Non è la prima volta che te lo dico, è un concetto che ti sfugge».
«Ok, ragioniamo. Vuoi aiutarmi a sistemare la macchina? Taglia corto e dimmi cosa vuoi in cambio. Nessuno fa niente per niente».
«Devi accompagnarmi in un posto per risolvere un problema».
«Come immaginavo! Un posto. Un problema. Non mi sembra che tu voglia darmi molte spiegazioni».
«Esatto! Niente spiegazioni».
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«Che cazzo vuol dire? E come dovrei aiutarti?»
«Vuol dire che non sono disposto a discutere, ascoltare pareri o consigli. Io metto i soldi per sistemare l’auto e tu mi accompagni. Fine dei giochi».
Alex ripose i pezzi che aveva appena pulito nel cassetto e assicurò il catenaccio.
«Qual è la fregatura?» chiese storcendo il muso.
«Nessuna fregatura, non voglio farti concorrenza! È solo una condizione che devi accettare. Zero domande».
«Ho la vaga sensazione che me ne pentirò ma c’è qualcosa di subdolo che mi attrae in tutto questo», specificò strofinandosi gli occhi. «D’accordo! Tu sganci la grana e io ti rendo la cortesia accompagnandoti e sostenendoti, qualora ne avessi bisogno, nel risolvere questo problema dalla trama incognita. Se non c’è altro da aggiungere, qua la mano…»
«C’è dell’altro!».
«Cazzo! Lo sapevo».
«Mi serve una casa».
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«Certo… Una casa!» Alex sorrise e si sdraiò sul letto.
«Anche un monolocale può andare bene».
«Un monolocale? Sei sicuro? Io pensavo a un attico di sei stanze con giardino verticale in terrazza!» rispose alzandosi di scatto.
Lo marcai stretto mentre usciva dal bar. Con un balzo si sedette sul cofano del Pick-Up e, indifferente al gelo della notte, accese una sigaretta e scrutò il cielo. Spumose nuvole di carbone soffocavano le cime dell’altura circoscrivendo il bagliore di saette che si ramificavano dietro la montagna.
«Che c’è? Ho detto qualcosa che non va? Voglio solo che mi aiuti a cercare un alloggio. Un posto in cui vivere per un po’ di tempo. Non so neanch’io per quanto; sei mesi, forse un anno. Potremmo abitarci insieme, condividere le spese, aiutarci a vicenda. Che cazzo, per quanto tempo pensi di poter continuare a vivere in un antibagno?»
«Porca puttana, credi veramente di poter condividere una casa con me? Quattro giorni fa non sapevi neanche che io esistessi, mi guardavi dall’alto del tuo piedistallo con la convinzione che al convento ti avrebbero risolto ogni cosa, e nel frattempo, con le mani nelle tasche, ti accertavi di avere ancora i soldi dentro le mutande, chiedendoti se fosse il caso di denunciarmi alla polizia per una bicicletta del cazzo. Ora mi chiedi un favore senza condizioni e una casa da condividere. Da non credere» concluse sogghignando.
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Le prime gocce d’acqua vennero giù a inacidire l’aria e il gorgoglio di un tuono mascherò i sospiri di Alex che, con la testa rivolta al cielo, cercava il contatto con la pioggia.
«Mi hai detto di avere un sogno» insistetti. «Forse è arrivato il momento di parlarne. Di cambiare vita per creare la condizione adatta e realizzarlo. Cosa stai aspettando? Le risposte non arrivano dal cielo. Sai qual è la verità? Fra me e te non è una questione di fiducia, né di convenienza. Non è un problema di tempo, di conoscenza o di pazzia. La verità è che una cosa ci lega su tutte: noi non abbiamo un cazzo da perdere, siamo due persone sole».
«Voglio andare in Africa; questo è il mio sogno». Saltai sul cofano e presi posto al suo fianco in attesa che continuasse. «Voglio attraversare il deserto, imbattermi in una tempesta di sabbia e vivere in stretto contatto con la natura. Forse stai pensando che tutto questo non ha senso, che non ha nessun legame con la passione per i marchingegni all’avanguardia di cui ti ho parlato fin dal primo giorno, ma è proprio qui che ti sbagli. Immagino un viaggio in Africa come un salto temporale. Uno di quei viaggi in cui vieni catapultato indietro nel tempo attraverso una macchina apposita che ti consente di stabilire data e luogo».
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«Una sorta di ritorno alle origini?
«Esatto! Voglio assaporare la vita dove il progresso non ha contaminato luoghi e costumi, per capire come ci si sente in assenza di energie prodotte meccanicamente. Voglio trovare un altro tipo di energia, quella spirituale, quella che sento vibrare dentro di te, continuamente. Lo so, detto da uno che vive un rapporto morboso con saldatore, fili e connessioni suona strano, ma in realtà, una parte di me ha sempre saputo che la passione per l’elettronica deriva da un adattamento alle circostanze: mi sono dedicato a qualcosa che mi ha permesso di rimanere rinchiuso in un antibagno».
«Dopo quello che hai detto, sono ancora più convinto che tu debba accettare la mia proposta. È arrivato il momento di uscire allo scoperto per trovare il modo di fare le valigie e andare in Africa. Ora però entriamo dentro o ci prendiamo una polmonite!»
«Comunque la casa non è un problema» ribattè scivolando giù dal cofano.
«Dici davvero?» Saltai giù e gli sbarrai la strada. «Forse ho capito: potresti chiederla al tuo titolare?»
«No, Gerardo vorrebbe delle garanzie che non possiamo dargli. Mi vuole bene ma non è così altruista e fiducioso. Tra l’altro, se andassi via da qui il suo piano di sorveglianza salterebbe e si ritroverebbe in crisi. Non mi aiuterebbe mai».
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«Di che parli allora?»
«Fidati, ti porterò in un posto dove potrai trascorrere il tuo tempo senza spendere un centesimo di affitto. E se tutto fila liscio, potrai rimanere lì per sei mesi o forse un anno».
«Qual è la fregatura?».
«Nessuna fregatura», rispose sorridendo mentre accendeva l’ennesima sigaretta. «Più che altro una condizione: non devi chiedermi niente. Né come, né perché. Nessuna domanda sul posto in cui ti porterò». Attonito, assorbii la richiesta che mi tornò indietro come un boomerang e annientai sul nascere decine di interrogativi. «Ma occupiamoci di una cosa per volta. Intanto, facciamo risuscitare Carolina» disse battendo la mano sulla carrozzeria dell’auto. «Sono due anni che mi prometto di farlo!»
«Carolina?»
«Già, è così che l’ho battezzata».
Seguii Alex dietro il bancone. Vuotò il fondo di una bottiglia di rum in bue bicchierini e me ne porse uno.
«Questa macchina era di mio nonno, l’acquistò perché gli serviva un mezzo per trasportare attrezzi, legna e quant’altro».
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«Era un contadino?»
«Non proprio.
Possedeva un fazzoletto di terra con un rudere, un pollaio e una capra che chiamammo Carolina. Io non avevo mai avuto un animale domestico e quando ero da mio nonno mi approcciavo alla capra come si farebbe con un cane, la portavo in giro e ci giocavo. La capra morì di vecchiaia a tredici anni e, quel giorno, per rincuorarmi, mio nonno decise di farmi guidare il Pick-Up nella strada sterrata di campagna per trasportare l’animale morto. Quando tornammo a casa, mi disse che ero un ottimo autista e che per il mio diciottesimo compleanno l’auto sarebbe stata mia.»
«A Carolina» annunciai alzando il bicchiere.
«Alla rinascita».
Un lunedì, come tutte le cose che iniziano il primo giorno della settimana, nel giro di un paio d’ore il motore di Carolina ricominciò a ruggire fra polvere e fumo. Carmelo, un meccanico siciliano capace di far resuscitare i morti, diede gas al motore mentre ci raccontava dei suoi viaggi nei paesi latinoamericani, vantandosi di essere un ballerino eccezionale e un donnaiolo senza scrupoli. Dopo un’attenta ispezione al sottoscocca e alla marmitta, si spinse fuori con il carrello, accese il sigaro che teneva fra i denti e tirò il pollice in su. Il viso imbrattato d’olio marcò l’espressione soddisfatta con cui incassò il denaro omaggiandoci due sigari cubani.
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Con il braccio fuori dal finestrino, facemmo un giro panoramico della zona, fumando sigari e mettendo su un piatto d’argento intenzioni ed entusiasmo. La libertà di movimento e la complicità con cui ci confrontammo mise in moto meccanismi adrenalinici che diedero un altro colore alla giornata.
Alex riagganciò dei contatti con cui poteva tornare a svolgere “attività di trasporto” e in men che non si dica, senza anticiparmi nulla, mi coinvolse in uno dei suoi loschi affari. Mi spiegò che, in realtà, guadagnare somme ingenti di denaro nel più breve tempo possibile ci serviva per avere a disposizione ore preziose da dedicare alle nostre passioni, per vivere in assenza di vincoli, in uno stato di libertà decisionale.
Percorremmo strade che avevo attraversato in bici, luoghi che stavano diventando familiari, e ci dirigemmo nel centro abitato di Muggia. Girovagammo per la cittadina riassaporando il gusto di una vita che doveva essere vissuta fuori dalla tana. Incrociammo gente, acquistammo vestiti, scarpe e pranzammo in un’osteria.
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Per la prima volta, vivemmo la giornata alla luce del sole, in piena sintonia e senza nulla da temere, togliendo al tempo il potere di decidere sull’autenticità della nostra amicizia.
Davanti al portoncino di una palazzina, Alex si guardò alle spalle, tirò fuori un mazzo di chiavi e aprì. Lo seguii sulle scale mentre tenevo a freno la curiosità che, nella mia mente, continuava a innescare domande.
«Cosa fai, aspetti fuori o entri?» disse spalancando la porta dell’appartamento. Rimasi stupefatto. Non avrei mai creduto che, nel giro di poche ore, Alex mi avrebbe permesso di entrare in una casa senza sforzi e, soprattutto, senza tirare fuori un centesimo.
«Perdona i miei dubbi… Questa è la casa dove posso, anzi, possiamo trasferirci?»
«Il ‘possiamo’ è ancora da definire, ma la casa è questa! Non è di tuo gradimento?»
«Da dove salta fuori?»
«Questo non ha nessuna importanza. Hai chiesto una casa? Eccola!»
Mi affaccio sulla cucina, nel bagno, percorro il corridoio.
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«Dai, sii serio» insisto aprendo la porta di una delle stanze da letto.
«Dragan, tu non sai niente di me, e questa è una storia lunga che forse un giorno ti racconterò. Ti ho portato qui con un patto preciso, lo stesso che mi hai proposto e che entrambi abbiamo accettato: nessuna domanda».
«Hai ragione, ma quando ho accettato di non farti domande non avrei mai immaginato tutto questo in così poco tempo!».
«Va bene, ti accontento. Questa casa è abitata da fantasmi. Presenze. Tutti gli abitanti del luogo conoscono le tragedie che si sono consumate dentro queste mura. È rimasta invenduta per un decennio. L’agenzia immobiliare che si doveva occupare della vendita decise di acquistarla a buon mercato ma, in pochi mesi, l’impresa fallì e chiuse i battenti. Il titolare di quell’agenzia era mio zio. Non riuscì a dormire per giorni, era depresso e tormentato da incubi; si suicidò. Per una questione burocratica aveva intestato la casa a me. Non ho avuto mai il coraggio di dormirci da solo ma con te sarà diverso».
«Stronzate! Non prendermi per il culo».
«Non è credibile la storia?» chiese piegato dalle risate.
«Fantasmi, incubi e suicidi? Neanche un po’».
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«Ti interessa veramente sapere perché ho continuato a vivere dentro un bar avendo un’alternativa come questa? Voglio dire, è così importante ricevere delle spiegazioni? Più importante di quanto sia per me non dartele?» Alex aveva un tono di voce che rasentava la rassegnazione e per la prima volta era in difficoltà».
«No. Non lo è!»
«È quello che volevo sentire. Benvenuto! Io dormo qui» disse indicando il divano in cucina. «Di là ci sono due stanze da letto, scegli quella che preferisci».
«Certo, perché dovresti dormire in un letto dal momento che c’è un divano!»
«Non hai ancora capito come sono fatto? Preferisco adeguarmi a delle sistemazioni precarie per non rischiare di abituarmi alle comodità».
Mi guardavo intorno e non ci credevo. Potevamo disporre di un intero appartamento, arredato e con tutti i comfort. Nella prima stanza c’era un letto, una scrivania e un armadietto. In un angolo, uno scatolo con un vecchio computer e dei trasformatori. Il cassetto del tavolino si aprì a stento intasato da rimasugli di giocattoli, un gomitolo in filo di stagno, un saldatore e dei circuiti stampati su piastre di metallo.
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«Questa era la mia stanza da bambino» disse passandomi un sacco nero della nettezza urbana.
«L’avevo intuito! Quindi vivevi in questa casa con i tuoi?» Alex annuì voltandosi dall’altra parte. «Scusa, domanda partita per sbaglio. Se vuoi mi sistemo nell’altra stanza, per me non cambia nulla».
«No, rimani pure ma adesso devi fare una cosa per me. Nella stanza da letto in fondo al corridoio c’è un armadio pieno di vestiti e oggetti vari. Svuotalo. Ante, cassetti. Metti ogni cosa in questo sacco nero, senza alcuna distinzione, e butta via tutto. Fallo adesso e non chiedermi perché» ribadì dileguandosi senza ascoltare repliche.
Camicie,
giacche, scatoli con delle scarpe… Presi tutto alla rinfusa e riempii il sacco. In uno dei cassetti trovai un orologio. Aveva il cinturino in pelle, la cassa d’oro e il vetro scheggiato. Lo riposi nella tasca del giubbotto e continuai la raccolta. Calzini, mutande, un paio di cravatte, una scatola con dei fiammiferi e una pipa. C’era anche un album fotografico; lo aprii. Uno scatto con un alone giallognolo ritraeva un bambino che indossava scarpe da donna. A seguire, una foto che conteneva una scritta sul dorso: “Alessandro, otto anni”. L’immagine lo ritraeva davanti alla torta mentre veniva baciato sulle guance dai suoi genitori. In un altro scatto si trovava in giardino, a torso nudo, insieme a un uomo mentre lavavano un cane.
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Chiusi l’album e lo infilai dentro il sacco. Capii che Alex si stava servendo di me per arginare un dolore che non riusciva ad affrontare e che i fantasmi a cui si riferiva esistevano veramente. Erano immagini congelate nelle stanze di quell’abitazione, scene che si rimettono in movimento quando torni a vivere spazi familiari, cortometraggi interpretati da odori che si risvegliano nella memoria e da oggetti che posseggono un’anima per ciò che hanno rappresentato. Aveva preferito sistemarsi in un angolo del bar, per tutto questo tempo, piuttosto che affrontarli da solo. Richiusi cassetti e ripiani dell’armadio svuotati di ogni cosa e uscii fuori a sbarazzarmi del sacco, mentre lui, di spalle, fumava affacciato al balcone.
«Nient’altro?» chiesi rientrando.
«Niente, ma veniamo a noi… Ho promesso che ti avrei aiutato senza farti alcuna domanda ed è quello che farò. Aspetto solo che tu mi dica mi quando». No. Tu piuttosto, ho promesso che ti avrei aiutato senza farti alcuna domanda ed è quello che farò. Aspetto solo che mi dici quando».
«Lo saprai quando sarà il momento!»
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Dopo Dopo una lunga chiacchierata con il signor Gerardo, che cercò in ogni modo di dissuaderlo dall’idea di abbandonare il bar, e dopo baci e abbracci della figlia, che gli rinnovò piena disponibilità in caso di ripensamenti, liberammo l’antibagno, caricammo tutto in macchina e rientrammo in casa con l’entusiasmo alle stelle. Nella lista delle cose da fare c’era l’organizzazione di un laboratorio confortevole in cui Alex avrebbe potuto dedicarsi ai suoi marchingegni elettronici, c’era la rivisitazione degli spazi in casa e l’acquisto di scorte alimentari per riempire stipetti e frigorifero. Organizzammo la nostra convivenza con la consapevolezza di esserci imbattuti in qualcosa che poteva disfarsi senza preavviso. La fiducia che ci eravamo concessi ci fece muovere in punta di piedi su un terreno ancora ricco di zone d’ombra e debolezze. Il reciproco bisogno e la voglia di condivisione ci avevano posizionato sullo stesso piano, permettendoci di vivere in simbiosi e programmare una nuova vita.
Dopo dieci messaggi e sette chiamate effettuate a qualsiasi ora del giorno e della notte senza alcuna risposta, trassi una conclusione: Ivonne aveva bisogno di una spinta emotiva drastica per concedersi un’altra occasione nella vita.
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Il racconto confidenziale con cui ha rivissuto fatti che non aveva mai esposto a nessuno è stato soltanto uno sfogo che, erroneamente, avevo interpretato come una richiesta d’aiuto. Passata mezzanotte, dopo aver esaminato e bocciato decine di idee utili per riavvicinarmi a lei, mi resi conto che dovevo iniziare a fidarmi di più del mio istinto e delle mie capacità innate.

Sul retro del Motel la foschia avvolgeva il Pick-Up in una morsa gelida. Continuavo a guardare l’ora e mi chiedevo se Ivonne fosse mai riuscita a spingersi fuori da quel posto.
Rompo il patto che Alex era riuscito a mantenere trattenendo dentro ogni lecita domanda e libero la mia coscienza spiegandogli cosa mi aveva spinto a essere lì. Senza entrare nel dettaglio, gli rivelai chi fosse Ivonne, come l’avevo conosciuta e cosa provai quando la rividi.
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«Cazzo, tu non sei normale!» disse sbadigliando. «Forse avrei preferito non sapere nulla».
«Ed ecco il motivo della mia riservatezza! Immaginavo la tua chiusura mentale».
«Sfiderei chiunque a non esserlo. Mi butti giù dal letto in piena notte, mentre sto smaltendo la mia sbornia, per portarmi a raccattare una ragazza anoressica con un trascorso burrascoso del quale, sinceramente, vorrei risparmiarmi i particolari. Mi sembra abbastanza sapere che si prostituisce in un motel gestito da un uomo che, nell’atto pratico, l’ha salvata per servirsene. Porca troia, Dragan, sei sicuro di quello che stai facendo?»
«Che vuol dire per te essere sicuro? Che dovrei muovermi solo in direzioni che riesco a esaminare anticipatamente? Che devo riflettere e mettere a fuoco, prevedere ciò che accadrà? Allora no. Non sono sicuro».
«Qualcosa me lo aveva anticipato!»
«Voglio affacciarmi al nuovo senza farmi condizionare dai pensieri, dalle esperienze passate o da chissà quali premonizioni future. Mi hai promesso che mi avresti aiutato. Fallo e basta!»
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«È quello che sto facendo, ma non ti aspettare che io sia disposto a fondare una sorta di comunità per disastrati, piuttosto, preferirei tornare a vivere nell’antibagno del bar. E comunque, visto che hai spezzato il patto, una domanda voglio fartela: Perché lo fai? Per una predisposizione ad aiutare gli altri o per un tornaconto personale? Sei innamorato?»
«Del suo sorriso! Ma non è questa la motivazione principale».
«Cazzo, ho paura di sapere quale sia» proferì con la testa fra le mani.
«Può sembrarti folle e non mi aspetto che tu capisca. La mia intenzione è quella di congiungere le tessere di un mosaico rappresentate da persone, luoghi, stati d’animo, per arrivare a un disegno che neanch’io conosco. Una di queste tessere è rappresentata dal nostro incontro, da te».
«Certo, un mosaico, com’è che non ci sono arrivato da solo».
«“Un mosaico così grande, com’è la vita, da non poter cogliere congruenza fra le tessere che lo compongono fino al momento in cui non avrai davanti agli occhi l’opera in tutta la sua completezza.”»
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«Sicché, io sarei una cazzo di tessera!?»
«Già, una delle prime, quelle che condizionano la forma e l’inserimento di tutte le altre».
«Adesso è tutto più chiaro, e io che credevo di essere folle!» disse scrutando fuori dagli specchietti retrovisori mentre accendeva l’auto. «Mancano cinque minuti alle tre, spostiamoci davanti l’ingresso del motel e facciamo quello che dobbiamo fare».
Ivonne varcò la soglia. Nascondeva il viso sotto la visiera del cappello e si muoveva incerta. Ci fermammo sul lato opposto del marciapiede e, senza scendere dall’auto, le aprii lo sportello. Un’auto le sbarrò la strada e accostò a pochi metri dall’ingresso del motel. Ivonne rimase immobile. L’uomo scese dalla macchina, richiamò la sua attenzione e cercò di afferrarle la mano.
«E questo chi cazzo è?» chiese Alex.
«Credo sia un cliente. Vaffanculo, non ci voleva! Forse è meglio andare via».
«Troppo tardi!» disse catapultandosi fuori mentre si sfilava il giubbotto. «Battere in ritirata non è nel mio stile».
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L’uomo aveva afferrato Ivonne per un braccio e la trascinava verso l’ingresso. Di soppiatto, Alex adagiò la giacca sul capo del malcapitato e gli sferrò una gomitata in pieno volto che lo stramazzò al suolo. Chiuso a riccio, cercava di proteggersi mentre gli piazzavamo calci all’impazzata che lo resero inerme. Alex finì il moribondo con un colpo sul viso che gli spense ogni impulso, gli sfilò il portafogli, montò in auto e, con un’inversione a U, ci raggiunse sul ciglio della strada.
«Muoviti Dragan…»
«Ivonne era seduta per terra con il viso fra le ginocchia.
«Andiamo» le dissi toccandole la spalla.
«Cazzo, prendila di forza e andiamo!»
«Ivonne, guardami. Dammi la mano. Vieni via con me». La ragazza alzò la testa, sorrise.
L’illuminazione stradale accendeva a singhiozzo i nostri volti: labbra cucite da silenzi che cercavano di quietare il caos. Per la prima volta insieme, con lo sguardo puntato sull’asfalto, arginavamo con indifferenza quella sensazione di solitudine che stava lasciando posto al consapevole bisogno di vivere con qualcuno a fianco.
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LA FAMIGLIA
Io, Alex e Ivonne diventammo una famiglia. Un legame nato dalla necessità, un bisogno acquisito con la consapevolezza di chi ha vissuto in solitudine e, d’un tratto, si rende conto che la felicità ha modo di esistere nell’istante in cui puoi condividerla con qualcuno, un’anima capace di leggerti nello sguardo, un angelo con cui puoi immortalarla, per riviverla come un meraviglioso ricordo ogni volta che lo desideri, rievocandone il sapore, l’umore.
Da quando il sole ci abbracciò sotto lo stesso tetto, ci prendemmo cura l’uno dell’altro come non aveva mai fatto nessuno. Una terapia di gruppo quotidiana in cui ogni elemento sta al proprio posto e bada bene a non invadere la coscienza dell’altro. Eravamo tre squilibrati che avevano trovato un punto di bilanciamento in un angolo nel mondo.
Cavalcammo i giorni condividendo le cicatrici di un passato ancora troppo presente, valicammo mesi respirando il profumo di nuove stagioni e nuove sfide, scalammo anni insormontabili, arrampicandoci su sogni che donavano un’aura lineare e schietta alla realtà anomala e artificiosa del nostro quotidiano.
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Alex si rivelò una macchina da guerra. Si occupava di tutto, senza se e senza ma. Affabile e sempre disponibile, amava prodigarsi nella realizzazione di ogni cosa utile per la casa e, di conseguenza, per la famiglia. Dove c’era un guasto, una necessità, un nuovo progetto, c’era la sua mano. Intervenire e attuare soluzioni pratiche sfamava il suo ego, lo faceva sentire indispensabile, ricercato, anche se tutto si esauriva toccando un argomento che lo spingeva a chiudersi in se stesso, l’unica cosa che lo metteva con le spalle al muro: parlare della casa in cui vivevamo da due anni. Tutte le volte che un motivo qualunque metteva in ballo l’argomento, l’espressione del suo volto trasmetteva disagio: scheletri che sembrava fossero destinati a rimanere dentro l’armadio.
I suoi traffici illeciti, a cui partecipavamo tutti specie se si trattava di appalti altamente remunerativi, erano diventati il nostro principale mezzo di sostentamento. Il nostro obiettivo era smerciare un quantitativo che ci consentisse, nei successivi quindici, venti o anche trenta giorni, di vivere tranquillamente, senza nessun altro impegno. Tradotto, significava recuperare denaro da investire per i beni di prima necessità e permettersi il lusso di avere del tempo da vivere in libertà. Una filosofia di vita che ci mise a rischio più volte comportando dei risvolti negativi che Alex ha conosciuto bene. Nel giro di un anno e mezzo fu arrestato due volte. La prima volta se la cavò con tre mesi agli arresti domiciliari, la seconda volta gli diedero sei mesi di vitto e alloggio in un carcere di minima sicurezza.
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Tornato in libertà, valicò la porta d’ingresso entusiasta come uno studente partito per l’Erasmus: aveva ottenuto un diploma di partecipazione al corso di componenti elettroniche, uno studio con cui aveva affinato la sua tecnica. Esaltato, riorganizzò il laboratorio che avevamo creato in casa e, con un trapano nella cintura, trascorse giornate intere a girovagare per la casa tracciando segni con una matita sulle pareti. Applicò fori ovunque, inserì cassette di derivazione, bypassò fili elettrici a cui collegò dei sensori. Incrociai il suo viso durante le operazioni di collaudo e mi bastò uno sguardo per capire che non avrebbe svelato mai, in anticipo, l’obiettivo del suo progetto, e che, a breve, io e Ivonne saremmo stati convocati per essere partecipi del suo momento di gloria.
Sbalorditi, guardammo Alex accendere la luce in cucina con uno schiocco delle dita. Con un battito delle mani fece partire la musica in filodiffusione per tutte le stanze e con un fischio corto, seguito da un fischio lungo, fece attivare e disattivare l’allarme di casa. Passò le ore successive a fischiare, schioccare le dita e battere le mani, facendo entra ed esci dalle stanze.
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Esaurito l’entusiasmo, nella breve pausa che, in genere, intercorreva dalla messa in opera di un progetto all’inizio di una nuova idea, lo vidi immobile davanti lo schermo del PC. Osservava in silenzio. Assorto. Nonostante il suo atteggiamento fosse giustificato dalla nube tossica in cui respirava ancora il fumo della canna spenta sul posacenere, e sebbene fosse una nostra consuetudine non invadere lo spazio vitale in momenti di ricercato isolamento, bucai la bolla di cemento in cui si era rinchiuso e gli feci avvertire la mia presenza.
«Questo è mio padre» disse ruotando lo schermo. L’immagine ritraeva un uomo a piedi nudi sul manto erboso con un bambino a cavalcioni sulle spalle. Non lo avevo mai visto di presenza ma riconobbi il suo volto in una delle foto di cui mi sbarazzai quando approdammo in casa per la prima volta.
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«Ti somiglia parecchio!»
«Si, lo so».
«E quel bambino? Sei tu?»
«Era il sette maggio, il giorno del mio compleanno. Otto anni».
«Oggi è il sette maggio!» esclamai consultando la data sul PC. «Tanti auguri!» Alex non colse il momento di enfasi con cui mi proposi e sospirò. «Sono due anni che viviamo insieme, due anni da quando ho tirato fuori tutta quella roba dall’armadio, e non mi hai mai parlato di lui».
«Non c’è un buon motivo per farlo», disse arrestando il PC. Mi baciò in fronte e uscì dalla stanza.
Ivonne rappresentò il collante che teneva legata la famiglia, se non ci fosse stata, io e Alex saremmo diventati soltanto una coppia di amici balordi. Ci occupavamo di lei con lo stesso impeto con cui un fratello si dedica a una sorella minore, con la stessa passione che un uomo dispensa alla donna che vuole conquistare e, per certi aspetti, lei si occupava di noi come una madre farebbe con i propri figli.
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Ivonne viveva in disparte, taciturna, preferiva il linguaggio del corpo alle parole. Il suo carattere era stato forgiato da esperienze che avevano creato un’aura impenetrabile, per niente facile da gestire. Non c’era una cosa che faceva contro la sua volontà, anche dietro consiglio o motivazione inconfutabile. Nessuno deteneva il potere per dissuaderla da una convinzione, niente era in grado di cambiare un suo principio o un semplice punto di vista. Era uno scoglio su cui le onde del mare potevano infrangersi per migliaia di anni senza mai eroderne la superficie, una corazza creata per custodire la debolezza dell’anima.
Ivonne pesava trentanove chilogrammi. Il suo disturbo alimentare fu studiato da uno specialista che avevamo ricercato e pagato profumatamente per venire in casa a fare il miracolo. Lei non accettò mai di essere visitata ma nemmeno si rifiutò, e dopo una anamnesi dettagliata in cui perse quel briciolo di spirito collaborativo, quando il medico, senza preavviso, le mise le mani in faccia per osservarle le pupille, si alzò di scatto dalla sedia e con uno spintone lo fece indietreggiare fino alla parete.
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Dopo circa sei mesi ci riprovammo con un altro dottore a cui consigliai, visti i precedenti, che sarebbe stato meglio evitare il contatto fisico. Tutto si risolse con un monologo dello specialista che, a debita distanza, dopo averla pesata, ci consegnò una dieta e una cura di farmaci che, a dir suo, l’avrebbero aiutata. Ivonne strappò i fogli davanti al medico e lanciò i brandelli per aria. Ciò nonostante, quell’incontro le diede una spinta emotiva che la indusse a reagire, capì che non ci sarebbe stato un terzo tentativo e, inoltre, era dispiaciuta per la delusione che, ancora una volta, aveva letto nelle nostre facce. Se non era disposta ad affrontare il suo disturbo alimentare per se stessa, allora, lo avrebbe fatto per noi. Attraversò un periodo in cui il suo atteggiamento era cambiato nei confronti del cibo e della sua persona. Prese un paio di chili e in molte occasioni si sedette a tavola per cenare, cosa che non aveva mai fatto. Per la vigilia del suo compleanno, io e Alex cercammo di cavalcare l’onda organizzando una cena a tre, rigorosamente a lume di candela, in un locale sul mare nei pressi di Muggia.
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In comune accordo, ci vestimmo in jeans e camicia e l’aspettammo davanti alla porta. Mentre ci domandavamo se fosse il caso di andare a controllare che fine avesse fatto, attraversò il corridoio come in una passerella e ci lasciò a bocca aperta. Indossava scarpe sulle quali si avventurò come una neofita sui trampoli, un vestito lungo con uno spacco inguinale che non lasciava spazio all’immaginazione, capelli raccolti in uno chignon con ciocche che velavano occhi verdi in risalto con linee di trucco viola e ombretto oro. Il suo sorriso indeciso, sostenuto da labbra rosse e lucide come ciliegie, metteva in risalto la sua fragilità.
La cena si consumò fra sguardi complici, battute piccanti, pesce e bottiglie di vino bianco. Ci abbandonammo alla leggerezza con conversazioni futili e provocazioni. Ivonne non accennò alcun segnale di disturbo e si godette la serata. Riuscì persino a evitare un rito, a cui eravamo abituati assistere, in cui fissava il riflesso del suo volto su una posata per un tempo indeterminato, estraneandosi da ogni conversazione. Non appena rientrammo in casa, lanciò le scarpe per aria e corse in bagno a vomitare. Con il volto rigato dal trucco e un sorriso che non l’abbandonava mai, uscì dal bagno e addentò la sua mela.
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«Il mio è un problema mentale. Lo so» disse seduta sul pavimento con la schiena contro il muro. Alex mi passò una mela e prendemmo posto al suo fianco. «Nessuno può guarirmi, se non io stessa. Per farlo dovrei smettere di vivere dentro i pensieri. Dovrei mandare via gli spettri che prendono il controllo delle mie emozioni ogni volta che cerco di escluderli dal mio presente. I medici possono solo rendermi insensibile riempiendomi di farmaci, ma così facendo mi rendono insensibile anche alla vita. Preferisco mangiare la mia mela» concluse dileguandosi nella stanza da letto.
Rimasi qualche minuto a parlare della serata con Alex, della delusione che lessi nello sguardo di Ivonne, e poi la seguii. Raccolsi i suoi vestiti, sparpagliati sul pavimento, li adagiai sulla sedia. Un gioco di luci e ombre, generate dalla luna piena che ci osservava attraverso le scalette della finestra, metteva in risalto il corpo nudo, coperto a tratti dal lenzuolo. Le accarezzai le gambe. Le baciai i fianchi. Le annusai il collo sfiorandole i seni. Tirai via le lenzuola e scoprii il suo braccio sfregiato da tagli ancora umidi. Recisioni superficiali inflitte con una lametta. Aprii il cassetto del comodino e trovai la lama che aveva utilizzato.
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«Quando perdo il controllo sento il bisogno di punirmi».
«Capisco, capita anche a me» risposi mentre facevo scorrere la lama lungo il mio avambraccio.
«Non farlo!»
«Devo. Voglio farti capire come mi sento quando ti vedo i tagli addosso». Muta, guardò mentre mi infliggevo altri tagli. Secchi. Veloci. Il sangue imbrattò le lenzuola mentre continuavo senza sosta. Ivonne mi bloccò la mano e, con l’altra, strinse le ferite per fermare il sangue.
«Smettila! ti prego…»
«Vorrei che la smettessi anche tu, e che ti volessi bene, come te ne voglio io. Ma non ti chiedo di farlo, so già che non mi ascolteresti. Non mi resta altro da fare che prometterti una cosa: se lo fai ancora lo faccio anch’io, e anche meglio di te».
«Non sfidarmi» rispose mentre mi leccava le ferite.
«Nessuna sfida. Ti amo, e quando ti procuri del dolore soffro anch’io. Possiamo tagliarci le vene e morire insieme, se è questo che vuoi».
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Ci baciammo fissandoci dritto negli occhi e facemmo l’amore mentre il calore del sangue ci legava in un patto per la vita.
Il mattino seguente, io e Alex mettemmo da parte ogni cosa per dedicare anima e corpo alla giornata del ventitreesimo compleanno di Ivonne; dodici ore organizzate in ogni dettaglio. Come consiglieri a corte di una regina, la trascinammo in giro per i negozi senza badare a spese. Selezionammo capi di abbigliamento, calzature e accessori che le facemmo indossare senza darle tregua. Ivonne era infastidita da tutti quei gesti amorevoli ma non abbastanza da opporre resistenza a entrambi. La corteggiammo a turno regalandole fiori, dichiarandole il nostro sentimento, dedicandole ogni attenzione. Una cura che ci permise di estorcerle espressioni insolite per il suo viso; contentezza e serenità.
Seguimmo il piano giornaliero, che prevedeva un giro in funivia, e dal centro abitato ci spostammo a Kloban, un paesino d’altura sito ai confini con la Slovenia. La cabina aperta ci donò il punto di vista di un uccello che taglia il cielo sorvolando il sito archeologico: mura medioevali incorniciate da alture ricche di vegetazione si estendevano a perdita d’occhio in direzione del mare. Un fotogramma da immortalare nell’anima. Un panorama senza eguali a cui assistemmo con le dita delle mani legate.
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Pernottammo sul posto e ci concedemmo un trattamento Spa con bagno turco, fanghi termali, idromassaggio e doccia sensoriale, un fuori programma che ci fece vivere il lusso di una giornata all’insegna dell’abbondanza. Quella notte i nostri corpi si abbandonarono a un amore che non voleva regole né inibizioni, un sentimento che trovava l’unica ragione di esistere attraverso un numero perfetto: tre.
Lungo la strada di ritorno, si respirava una sensazione di unione senza precedenti, la sessualità e l’amore che condividemmo buttò giù pareti che, fino a quel momento, avevano limitato il nostro rapporto. Ivonne parlò di sé come non aveva mai fatto, per la prima volta spalancò le porte del convento della Sacra Croce ad Alex raccontando ogni cosa. Si mise a nudo descrivendone ogni dettaglio, ma questa volta il suo dire era più estraneo all’accaduto, distaccato. Parlandone, affrontò ancora una volta il demone che riaffiorava ogni volta che la sua anima provava a librarsi in volo.
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Io e Alex capimmo di essere gli elementi necessari per curare la sua malattia. Aiutare Ivonne a focalizzare l’attenzione su un presente che le facesse innescare un processo di autoguarigione era semplice e alla nostra portata: bastava amarla. E per un logico disegno del destino ce ne innamorammo entrambi.
Senza comunicarlo alla famiglia, decisi di farmi tatuare le iniziali dei loro nomi sulle nocche della mano destra e, successivamente, l’ala di un’aquila sul dorso della stessa mano. Tatuaggi che mi avrebbero accompagnato fino alla fine dei miei giorni. Presenti, ogni volta che avrei preso una decisione importante; tutte le volte che avrei tenuto stretto o mollato la presa su qualcosa.
Con i piedi nudi sul pavimento, rimasi seduto sul letto a sfogliare centinaia di fogli che contenevano concetti che avevo scritto negli ultimi due anni. Ivonne dormiva al mio fianco, il suo respiro mi teneva ancorato al presente mentre venivo trascinato dalla lettura.
Avevo scritto della mia infanzia, della fitta trama di pensieri che mi aveva tenuto in ostaggio fino alla sera di quel venticinque dicembre, il giorno in cui le parole di mio padre aprirono un varco fra le ragnatele e mi permisero di andare oltre.
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Scrissi di lui e di mia sorella, di come mi sento tormentare l’anima tutte le volte che, pensando a loro, riesco soltanto a mettere a fuoco un ricordo sbiadito. Avevo ripercorso l’incontro con Alfredo e percepito il potere dell’universo nel congiungere vite apparentemente estranee attraverso passaggi dettati da scelte fortuite. L’intimità che avevamo instaurato durante il viaggio nel suo tir e il racconto della sua esperienza adolescenziale mi spinsero a riesaminare un concetto straordinario che, nel linguaggio comune, viene identificato con la parola casualità, un termine che ci fa comodo utilizzare per banalizzare eventi inspiegabili.
Avevo dedicato notti e albe alla stesura di decine e decine di pagine che narravano di Ivonne, di come era riuscita, con un sorriso, a tatuare la sua impronta nel mio cuore, e di quanto fosse faticoso, a distanza di anni, continuare ad amare e mantenere la promessa data: le ho giurato che avrebbe guidato ancora la sua bicicletta, e so che accadrà. Nero su bianco, avevo immortalato la sua esperienza al convento della Sacra Croce. Un quadro che rappresenta il male. Una porta d’accesso per l’inferno.
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Era stato sorprendente riesaminare l’incontro con Alex, determinare il preciso istante in cui le nostre vite si erano fuse, spinte da un consapevole bisogno di condividere sogni e paure, segreti inconfessabili che ci avevano permesso di trasformare un antibagno in un luogo magico.
Infine, avevo elaborato la storia del dottor Bhauer, descrivendo la brama di vendetta che avevo sentito nascere dentro e il desiderio di veder piombare la violenza del cielo nel suo destino.
Avevo riempito pagine che descrivevano una vita vissuta fra graffi profondi sulla pelle e libertà su cui approdare per sanarli. Una trama contorta dalla conclusione incerta, un epilogo che si sarebbe palesato nel momento in cui io e la mia famiglia saremmo stati pronti ad affrontare il viaggio di sola andata per il continente nero.
Ivonne mi baciò sulla schiena, sul collo, sulla guancia.
«Tanti auguri!» Mise via i miei appunti, si strusciò come una gatta, sorrise e mi morse un labbro donandomi uno sguardo seducente e provocatorio. «Oggi sono il tuo regalo, da mattina a sera! Fanne ciò che vuoi».
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Alex si fiondò in camera catapultandosi sul letto.
«Auguri amore mio! Fai quello che vuoi anche con me», ripetè soffocandomi con abbracci e baci.
«Sei uno stronzo! Eri dietro la porta…»
Cercai di divincolarmi, ma non mollava la presa. Ivonne ci coprì con il piumone fin sopra la testa.
«Ho capito, sono di troppo!» disse dileguandosi.
«Finalmente l’ha capito, sei mio!» urlò Alex attanagliandomi con le gambe. Gli strinsi i testicoli e, intimandogli di mollarmi, riuscii a sfuggirgli; rimase piegato sul busto a riprendere fiato. Giù dal letto, afferrai Ivonne per le braccia e la trascinai ancora sul materasso: la desideravo. Cacciò un urlò, e rise disperatamente, attaccata su più punti dal solletico che gli provocai sui fianchi, sul collo e sulle costole. Mi baciò. Poi baciò Alex, gli sfilò la cinta dai pantaloni mentre le leccavo la schiena. Il suo corpo si contorse in un brivido e tornò da me a gambe spalancate. L’avvinghiai spingendole un dito nell’ano e, mentre il suo corpo si dimenava sul mio, Alex le baciò il collo cercando i miei occhi. Sguardi complici si amalgamarono al piacere. Facemmo l’amore chiusi dentro una bolla di istintiva noncuranza che rimbalzava, soavemente, sulla parola normalità.
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Sdraiata in mezzo al letto, Ivonne ci teneva le mani. Fumavamo erba guardando il soffitto come se fossimo distesi sulla sabbia a guardare le stelle.
«Ero dietro la porta perché stavo entrando per consegnarti una cosa» disse Alex allungando un pacchettino chiuso con del nastro blu. «È da parte nostra. Buon compleanno!»
Scossi il pacchetto e guardai Ivonne.
«Cosa aspetti, aprilo!»
«Voglio indovinare. In genere i pacchetti piccoli nascondono qualcosa di prezioso. Ci sono! È un anello per la proposta di matrimonio… Ci sposiamo in tre?»
«Già, pensa che flash!» esclama Alex mordendomi un lobo. «Per la prima volta uno stato in cui accettano l’unione in matrimonio di tre persone! D’altronde, chi l’ha deciso che in una famiglia ci si debba amare in due?»
«È vero!» confermò Ivonne succhiandomi il lobo dell’altro orecchio. «Si parla tanto di matrimoni fra gay ma nessuno ha pensato all’unione di tre o quattro persone».
Tirai via il nastro. Dentro lo scatolino c’era un mazzo di chiavi con una targhetta: “Via delle Marmore 22”. Una valanga di pensieri sotterrò il momento presente.
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Alex poggiò la fronte sulla mia.
«La casa si trova a cinque kilometri da Anzio, e dista circa otto kilometri dalla villa del dottor Bhauer, il medico di cui ci hai parlato. Hai atteso per troppo tempo, basta procrastinare, è il tuo momento».
«È il nostro momento!» specificai mentre ci stringevamo in un abbraccio. Alex aprì il portatile sulle gambe e fece uno zoom sulla piantina della villetta.
«È su due piani. Ha un box-garage, come da tua richiesta, e si trova in una posizione favorevole: né troppo isolata e nemmeno contigua ad altre villette o costruzioni, a parte un casolare di un’azienda vinicola. Dista circa un kilometro dal mare e generalmente la danno in affitto nel periodo estivo, ma grazie a tre foglietti viola con la scritta cinquecento stampata davanti e dietro, la casa sarà nostra per un mese senza alcun vincolo di contratto né documenti. Tutto sulla parola! Gli ho fatto intendere che io e Ivonne avevamo intenzione di sfruttare l’abitazione per i nostri incontri amorosi».
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Il giorno del mio compleanno diede il via a un progetto che, in realtà, era stato canalizzato negli anni dal moto perpetuo degli eventi. Ci sedemmo intorno al tavolo e, per la prima volta, provammo ad organizzare un piano entrando nel dettaglio: luoghi, date, compiti. Ci saremmo trasferiti nella nuova abitazione per un tempo di circa quattro settimane. Alex avrebbe piazzato delle telecamere a circuito chiuso davanti l’abitazione del dottor Bhauer e, così facendo, avremmo avuto una settimana di tempo per studiare le sue abitudini e monitorare eventuali visite di parenti o amici. Una volta dentro, per non destare sospetti e rimanere anonimi nel vicinato, saremmo rimasti chiusi in casa per un tempo indefinito, e per questo avremmo avuto bisogno di una buona scorta di generi alimentari e prodotti di uso quotidiano. Per finire, avremmo dovuto procurarci il materiale necessario per trasformare il box della nuova casa nella stanza in cui si sarebbe sviluppato il mio esperimento; un disegno sadico che non avevo ancora descritto alla famiglia. Quando gli consegnai la lista dettagliata di tutto l’occorrente, Alex e Ivonne si guardarono sottecchi, soffocarono la curiosità e approvarono le mie richieste annuendo silenziosamente. Quella era la forza della nostra unione.
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Suonò il citofono. Alex lanciò il telefono sul tavolo e guardò fuori dalla finestra. Ci indicò di fare silenzio e si precipitò davanti il monitor da cui teneva sotto controllo l’ingresso della portineria. Fuori di sé, sferrò dei pugni sul tavolo mentre l’apparecchio continuava a suonare.
«Si può sapere che cazzo ti prende?»
«Quello stronzo è qui! Cazzo, cazzo…»
Contro il vetro della finestra, vidi due uomini conversare davanti il portoncino.
«Di che stronzo parli?»
«È mio padre. Con quale coraggio è tornato dopo tutto questo tempo!»
Infuriato, Alex buttò giù le sedie e prese a calci la porta. Non aveva mai parlato di lui e, vista la reazione, affrontare l’argomento non prometteva nulla di buono. Nell’arco degli anni trascorsi insieme, avevo creduto che suo padre avesse fatto una brutta fine, una storia che Alex non ci avrebbe mai raccontato. Invece no. Era lì, a suonare insistentemente al citofono.
«Va via!» urlò allo schermo dimenandosi. Lo bloccai sulla porta afferrandogli la mandibola.
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«Adesso calmati e ascolta. Non so cosa sia successo fra voi, ma una cosa è certa: andrò da lui e gli dirò di andarsene».
«Si, è quello che devi fare! Mandalo via prima che io scenda ad ammazzarlo. Di che ti ho affittato la casa da poco e che non abbiamo nessun’altro tipo di rapporto. Spiegagli che non ci siamo più visti e che mi paghi le mensilità con una ricarica sulla carta».
«Ok, ma cerca di mantenere la calma».
«Qualsiasi cosa ti dica, non dire che sono in casa. Per nessun motivo al mondo! Promesso?»
«Te lo prometto».
Ivonne guardò dallo spioncino e aprì la porta. L’uomo davanti a noi era ben vestito. Barba curata, occhiale firmato e un sorriso di circostanza che non gli abbandonava il viso. Due passi indietro, un altro uomo vestito in giacca e cravatta ci squadrò da capo a piedi tenendo le braccia dietro il busto.
«Salve!» dico mentre l’uomo allunga il collo per osservare dentro casa.
«Sto cercando mio figlio; Alessandro».
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«Alex? Il padrone di casa?».
«Già, il padrone di casa mia! Sono il padre, e questo è il mio appartamento». Dice urtandomi e facendosi strada oltre la soglia.
«Prego si accomodi, anche se in questo momento la casa ci è stata affittata e quindi dovrebbe chiedere permesso».
«Dubito che Alessandro vi abbia dato un regolare contratto di affitto. Potrei buttarvi fuori subito! Da quanto tempo vivete qui?»
«Saranno un paio di mesi» risposi cercando il consenso di Ivonne che fissava in malo modo l’uomo rimasto fuori dalla porta. «Io e la mi ragazza stavamo discutendo di cose importanti, quindi se non le dispiace».
«Che cazzo guardi!» esclamò Ivonne.
«Shhh, sta tranquilla» dissi stringendola al mio fianco.
«Sottile, complimenti!» precisò il padre di Alex.
«Ci perdoni, la mia fidanzata è un po’ nervosa perché stavamo litigando, e lei odia quando qualcuno ci interrompe!»
«Non credo a una parola di quello che ha detto, ma non importa. Conosco mio figlio, e so che non vuole vedermi; ero preparato a questo.
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Tuttavia, ho bisogno di comunicargli una cosa molto importante». L’uomo tirò fuori dalla tasca una lettera e me la porse. «Vorrebbe essere così gentile da consegnargliela?»
«Certo! Anche se non posso garantirle che lo vedrò a breve».
«Invece io sono convinto che lo vedrà presto! Posso sapere il suo nome?»
«Dragan».
«Vede Dragan, l’esistenza ha la stessa fragilità di un castello di carte. Prima che il vento le spazzi via, mettendo fine al lavoro di una vita, bisogna piazzarle tutte e sperare che duri più a lungo possibile. Questa è l’ultima carta che ho, l’ultima da collocare nel rapporto con mio figlio».
Dalla finestra, Alex osservava l’auto che andava via mentre io e Ivonne, alle sue spalle, aspettavamo un responso.
«Che c’è?» disse cercando di scrollarsi gli occhi puntati addosso. In cucina, si sedette al tavolo con una bottiglia di grappa alla menta fra le mani. «Visto che carina» sottolineò mettendo la bottiglia in controluce. Conteneva una piantina che rifletteva sul vetro svariate tonalità di verde. «L’avevo acquistata per metterla in esposizione, magari dentro una vetrinetta, ma adesso ho bisogno di bere e non c’è altro! Bevete con me?» chiese facendosi strada fra i pensieri con un paio di sorsate.
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«A quattordici anni mi sentivo una nullità. Avevo il viso pieno di acne, le ragazze non mi trattavano di striscio e venni bocciato al primo anno delle scuole superiori. Mio padre si era indebitato investendo tutto quello che aveva per creare una società di mediazione per i prestiti. “Per fare soldi, bisogna prestare soldi”, disse mostrandomi, col petto in fuori, tutta la fierezza acquisita con l’idea geniale che aveva illuminato la sua giornata. In attesa che il tempo gli desse conferma, lo vedevo e sentivo imprecare mentre tirava pugni al televisore che, di tanto in tanto, faceva i capricci e aveva bisogno di un colpo per tornare a trasmettere immagini. Poi la svolta. Un giorno tornò a casa con un televisore di ultima generazione, grande e leggero. Mia madre lo guardò con sufficienza rovinandogli il momento di gloria. Non gli fece alcuna domanda, né gli mostrò un minimo di meraviglia. Io, al contrario, gli manifestai tutta la mia gratitudine appropriandomi della vecchia TV che sistemai immediatamente nella mia stanza. La smontai per cercare di capire come sistemare quel fastidioso difetto che di tanto in tanto le faceva perdere il segnale e, scoperchiato l’involucro posteriore, mi si aprì un mondo. Ideai il significato di una parola che può essere rappresentata dalla forza, dalla curiosità, dall’ingegno, dalla comunione di capacità in grado di farti realizzare ogni cosa: la passione. Mi appassionai a ogni pezzo che conteneva la TV. Ogni componente era una scoperta, era lì dentro per un motivo preciso, e io volevo scoprire quale fosse. L’anno successivo, decisi di intraprendere gli studi in un istituto professionale. Cominciai a lavorare sui circuiti con saldatore e filo di stagno ed ebbi la conferma che mi trovavo nel posto giusto. Aprivo e chiudevo la valigetta degli attrezzi continuamente, mi piaceva averne il controllo, sapere che tutto era precisamente nel posto che gli avevo assegnato. Diventai più propositivo e la vita mi sorrise facendomi conoscere Anna. I primi baci, le prime palpatine. Per farla breve, stavo riscattando la mia adolescenza, finalmente avevo una passione che mi faceva provare interesse e una fidanzata che mi faceva provare dolore ai testicoli quando tornavo a casa. Ma in uno schema grafico, il picco che rileva l’apice di una determinata frazione di tempo è sempre seguito da una depressione che lo riporta giù, con il rischio di crollare oltre il punto di partenza. Questo accadde il giorno in cui mio padre tornò a casa prima del previsto. Entrò senza salutare, sembrava che gli stesse esplodendo una bomba dentro l’animo. Ricordo bene quel momento: girava intorno al tavolo della cucina, e mia madre, inerme, lo fissava, come se sapesse già quello che stava per dire. “Sono gay”. La mia quotidianità venne stravolta. Mia madre lo mollò subito e si trasferì da mia nonna. All’inizio scelsi di rimanere con lui, in questa casa; non volevo trasferirmi in un altro paese. Avevo la mia vita, la scuola, i miei amici. Ma mio padre non mi diede scelta. Cominciò a vivere la sua vita senza alcun pudore. In un paio di occasioni organizzò delle cene a casa dimostrandosi di essere una persona totalmente diversa da quella con cui ero cresciuto. A scuola diventai un bersaglio facile. Si sparse la voce e le mie giornate diventarono incubi. Mi ritrovai a fronteggiare parole come: finocchio, frocio, femminuccia. Ogni giorno c’era un pretesto per litigare con qualcuno. Non avevo nulla contro i gay e, sinceramente, non avevo mai considerato la cosa. Essere contro o a favore dell’omosessualità per me non aveva alcuna importanza. Ognuno sceglie di vivere secondo il proprio istinto, questo pensavo. Ma quello era mio padre e aveva barattato la sua libertà con la mia prigionia. Mollai tutto e mi trasferii da mia madre. Mi ritrovai a vivere in un posto che non conoscevo, in casa con il suo nuovo compagno. Andai via dopo una settimana, le dissi che sarei tornato da mio padre e che, in qualche modo, avremmo trovato un modo per convivere. Quando rientrai, aprii l’armadio della stanza da letto e trovai indumenti da donna. Scarpe col tacco, trousse di trucchi e persino una parrucca bionda; corsi in bagno a vomitare. Quello fu il ricordo che gli lasciai prima di prendere dei soldi che nascondeva sotto il cassetto del comodino e scappare via. Camminai senza sosta, la nevrosi si tramutò in un carburante che mi permise di raggiungere mio nonno ad Altamura, un paesino di cinquecento anime. Mi presentai da lui dicendogli di essersi dimenticato del mio compleanno e, senza esitare, gli allungai la mano ricordandogli la promessa che aveva fatto: il Pick-Up. Mi guardò con sospetto, e dopo una lenta circospezione in cui si sforzò di ricordare, mi disse che non era del tutto rimbambito e che la cosa gli puzzava. Gli feci vedere una copia di un foglio rosa scaricato da Google nel quale mi limitai a cambiare nome e cognome in maniera molto grossolana. Nonno dondolò la testa e mi mise una mano sulla spalla. “I miei occhi non vedono bene ma il mio cuore ci sente ancora. Non fare stronzate, e se hai bisogno, torna da me”. Questo mi disse prima di consegnarmi le chiavi dell’auto. Girai senza meta per tre giorni e dormii in auto. Il quarto giorno Carolina si fermò mentre attraversavo piazza del promontorio, proprio davanti il bar. Da quel momento accaddero tante cose. Ho sofferto la solitudine ma ho anche avuto la fortuna di trovare persone che, a loro modo, mi hanno aiutato. Mi sono arrangiato con ogni mezzo, sono sopravvissuto, aspettando il giorno in cui la linea del grafico sarebbe tornata su. Il picco è arrivato quando ho incontrato voi e non mi concederò il lusso di rifare lo stesso errore, non permetterò mai a mio padre di trascinarmi ancora giù».
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Ivonne gli sfilò la bottiglia dalle mani; Alex si era addormentato sul divano. Gli adagiò una coperta sulle gambe e spense la luce.
Sul letto, rigirai fra le mani la lettera che mi aveva consegnato suo padre. Leggerla avrebbe potuto stravolgergli la vita ancora una volta.
«Aprila» disse Ivonne. «Vediamo di cosa si tratta e decidiamo. Dobbiamo scegliere per lui. Per il suo bene».
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