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Introduzione

L’esperienza vissuta all’interno del convento della Sacra Croce aveva ricucito sulla pelle di Ivonne un carattere fuori dall’ordinario. Confrontarmi con il suo racconto mi indusse a smontare idee maturate da archetipi puerili in completa dissonanza con il mio presente. Il nostro incontro mi lasciò in preda a un senso di responsabilità che mi aveva plagiato la mente, un dovere dal quale non potevo esimermi: era arrivato il momento in cui dovevo essere io la corrente che trascina via ogni cosa. Dovevo farlo mettendo in comunione l’esistenza delle persone che avevano incrociato il mio cammino. Tessere di un mosaico guidate dalla forza d’attrazione. Pezzi unici allineati dall’universo. Personalità modellate dall’angoscia, dai sogni e dalla ribellione, congiunte in una massa d’acqua che irrompe gli argini spazzando via la rassegnazione e annientando ogni paradigma.
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Capitolo 11

CONIUNCTIO

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«Era un contadino?»

«Non proprio.
Possedeva un fazzoletto di terra con un rudere, un pollaio e una capra che chiamammo Carolina. Io non avevo mai avuto un animale domestico e quando ero da mio nonno mi approcciavo alla capra come si farebbe con un cane, la portavo in giro e ci giocavo. La capra morì di vecchiaia a tredici anni e, quel giorno, per rincuorarmi, mio nonno decise di farmi guidare il Pick-Up nella strada sterrata di campagna per trasportare l’animale morto. Quando tornammo a casa, mi disse che ero un ottimo autista e che per il mio diciottesimo compleanno l’auto sarebbe stata mia.»

«A Carolina» annunciai alzando il bicchiere.

«Alla rinascita».

Un lunedì, come tutte le cose che iniziano il primo giorno della settimana, nel giro di un paio d’ore il motore di Carolina ricominciò a ruggire fra polvere e fumo. Carmelo, un meccanico siciliano capace di far resuscitare i morti, diede gas al motore mentre ci raccontava dei suoi viaggi nei paesi latinoamericani, vantandosi di essere un ballerino eccezionale e un donnaiolo senza scrupoli. Dopo un’attenta ispezione al sottoscocca e alla marmitta, si spinse fuori con il carrello, accese il sigaro che teneva fra i denti e tirò il pollice in su. Il viso imbrattato d’olio marcò l’espressione soddisfatta con cui incassò il denaro omaggiandoci due sigari cubani.

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Con il braccio fuori dal finestrino, facemmo un giro panoramico della zona, fumando sigari e mettendo su un piatto d’argento intenzioni ed entusiasmo. La libertà di movimento e la complicità con cui ci confrontammo mise in moto meccanismi adrenalinici che diedero un altro colore alla giornata.

Alex riagganciò dei contatti con cui poteva tornare a svolgere “attività di trasporto” e in men che non si dica, senza anticiparmi nulla, mi coinvolse in uno dei suoi loschi affari. Mi spiegò che, in realtà, guadagnare somme ingenti di denaro nel più breve tempo possibile ci serviva per avere a disposizione ore preziose da dedicare alle nostre passioni, per vivere in assenza di vincoli, in uno stato di libertà decisionale.

Percorremmo strade che avevo attraversato in bici, luoghi che stavano diventando familiari, e ci dirigemmo nel centro abitato di Muggia. Girovagammo per la cittadina riassaporando il gusto di una vita che doveva essere vissuta fuori dalla tana. Incrociammo gente, acquistammo vestiti, scarpe e pranzammo in un’osteria.

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Io e Alex capimmo di essere gli elementi necessari per curare la sua malattia. Aiutare Ivonne a focalizzare l’attenzione su un presente che le facesse innescare un processo di autoguarigione era semplice e alla nostra portata: bastava amarla. E per un logico disegno del destino ce ne innamorammo entrambi.

Senza comunicarlo alla famiglia, decisi di farmi tatuare le iniziali dei loro nomi sulle nocche della mano destra e, successivamente, l’ala di un’aquila sul dorso della stessa mano. Tatuaggi che mi avrebbero accompagnato fino alla fine dei miei giorni. Presenti, ogni volta che avrei preso una decisione importante; tutte le volte che avrei tenuto stretto o mollato la presa su qualcosa.

Con i piedi nudi sul pavimento, rimasi seduto sul letto a sfogliare centinaia di fogli che contenevano concetti che avevo scritto negli ultimi due anni. Ivonne dormiva al mio fianco, il suo respiro mi teneva ancorato al presente mentre venivo trascinato dalla lettura.

Avevo scritto della mia infanzia, della fitta trama di pensieri che mi aveva tenuto in ostaggio fino alla sera di quel venticinque dicembre, il giorno in cui le parole di mio padre aprirono un varco fra le ragnatele e mi permisero di andare oltre.
   

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Il giorno del mio compleanno diede il via a un progetto che, in realtà, era stato canalizzato negli anni dal moto perpetuo degli eventi. Ci sedemmo intorno al tavolo e, per la prima volta, provammo ad organizzare un piano entrando nel dettaglio: luoghi, date, compiti. Ci saremmo trasferiti nella nuova abitazione per un tempo di circa quattro settimane. Alex avrebbe piazzato delle telecamere a circuito chiuso davanti l’abitazione del dottor Bhauer e, così facendo, avremmo avuto una settimana di tempo per studiare le sue abitudini e monitorare eventuali visite di parenti o amici. Una volta dentro, per non destare sospetti e rimanere anonimi nel vicinato, saremmo rimasti chiusi in casa per un tempo indefinito, e per questo avremmo avuto bisogno di una buona scorta di generi alimentari e prodotti di uso quotidiano. Per finire, avremmo dovuto procurarci il materiale necessario per trasformare il box della nuova casa nella stanza in cui si sarebbe sviluppato il mio esperimento; un disegno sadico che non avevo ancora descritto alla famiglia. Quando gli consegnai la lista dettagliata di tutto l’occorrente, Alex e Ivonne si guardarono sottecchi, soffocarono la curiosità e approvarono le mie richieste annuendo silenziosamente. Quella era la forza della nostra unione.

   

           
   
   

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