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Introduzione
La confessione del dottor Bhauer ha confermato i cattivi presentimenti che abitavano la mia mente, presagi che si manifestavano tutte le volte che pensavo a mio padre. Ha innescato sensi di colpa che scoppiano come grida di vendetta. La sua morte, invece, se pur non mi restituirà il tempo con cui avrei potuto guardare ancora negli occhi mio padre, ha reso giustizia a chi ha subito il suo piano diabolico e, nel contempo, ha dato il via al processo evolutivo della nostra famiglia.
Rifugiati nella dimora che ci ha visto unire, io, Alex e Ivonne mettiamo a nudo idee e necessità che si articolano attraverso il processo della chiusura dei cerchi. L’unico modo per diventare immuni al veleno di un passato che proverà a contaminare i nostri giorni futuri è raggiungere la pace interiore, quello stato d’animo in cui i ricordi non sono un pretesto per guardarsi alle spalle ma una motivazione per divorare il presente.
Con gli occhi puntati sul planisfero, decretiamo una scelta di vita che salda l’esistenza della nostra famiglia a un obiettivo: un viaggio senza ritorno in Africa. Un percorso di quattromila chilometri alla scoperta del continente nero, un salto temporale che ci permetterà di ricominciare soltanto dopo la chiusura dell’ultimo cerchio, quello che racchiude una verità celata nell’animo di una suora missionaria.
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Capitolo 12
I CERCHI

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Ivonne è seduta sull’angolo del letto, trema. Abbiamo fatto l’amore e ci siamo addormentati stretti in un abbraccio, una morsa protettiva sciolta da tormenti che le hanno rubato il sonno. Prende la mia mano. Non parla. L’impassibilità con cui cerca di gestire la consapevolezza si trasforma in inquietudine, un mostro dai tentacoli acuminati che le si dipinge sul volto. Con un sospiro tira giù la maschera ed espone il suo fermento; so perfettamente quello che vuole.
«Da quanto sei sveglia?»
«Tanto».
«Ancora lo stesso sogno?»
«Si, lo stesso, ma vissuto in modo diverso».
«Che intendi? Come si può vivere un sogno in modo diverso?»
«Non è un sogno, sono pensieri carcerati nella mia memoria. Durante il giorno li vedo come sagome sfocate, la notte si tramutano in immagini nitide, dettagliate. Le scale, la cancellata, la via di fuga attraverso la campagna e la luce di un nuovo giorno. Non sogno, vivo il pensiero. Rimango coscientemente immersa in quello che mi propone la mente».
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«È il ricordo di ciò che hai vissuto che non ti abbandona».
«No, non è un ricordo, questo lo so con certezza. Quando rivivo l’accaduto provo un senso di libertà che non ho mai sperimentato, una condizione di leggerezza che mi fa sentire un’altra persona. Non è la visione di un concetto vissuto ma una previsione di ciò che accadrà, e voglio che accada prima possibile».
«Prima possibile è adesso».
«Proprio così. Adesso».
Alex dorme sul divano abbracciato a una bottiglia di Jack Daniels che ha riempito con i mozziconi di sigaretta.
«Sveglia, è ora». Mi guarda sconvolto, non capisce. Poi guarda Ivonne al mio fianco e di sobbalzo consulta l’orologio. Si alza disorientato.
«Cazzo! Se lo avessi saputo non avrei bevuto così tanto. Non possiamo rimandare a domani notte?» Ivonne lo fissa silente. «Ok, come non detto! Datemi qualche minuto».
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«Abbiamo soltanto tre ore prima dell’alba» specificai aprendo la zip dello zaino. Facciamo mente locale e prepariamo tutto ciò che potrebbe tornarci utile.
«Compito mio», dice Alex mentre si infila le scarpe. «Andrà tutto bene, vedrai».
Primo cerchio
IL CONVENTO DELLA SACRA CROCE
L’odore delle foglie bagnate dalla brina ci accompagna lungo il sentiero che dal convento della Sacra Croce si dirama su un percorso scavato, per anni, dalle ruote del carro di Gustavo, il contadino che fornisce i prodotti della propria terra alle sorelle. La vegetazione filtra il chiarore della luna. Un velo argenteo si posa sull’abitazione dell’agricoltore, un casolare isolato che affonda su un terreno scosceso, un luogo animato dal mugugno degli animali e dai rumori di aperta campagna.
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Ivonne non era mai tornata in quei luoghi, anche se il suo spirito non ne era mai venuto fuori. Fuggire dal convento della Sacra Croce le aveva salvato la vita ma, al contempo, le aveva imprigionato l’anima. Lei sapeva e, col passare del tempo, provò ad accettare di non poter fare nulla per porre fine alla diavoleria che aveva vissuto in prima persona e che ha continuato, nell’ombra degli anni a seguire, a impossessarsi di altre vite. Questo le ha procurato dolore, questa è la maledizione di cui deve liberarsi.
«Lo sento» annuncia a occhi chiusi.
«Cosa? Io non sento nulla» risponde Alex ancora assonnato.
«Lo scroscio dell’acqua».
Apriamo un varco fra le canne di un boschetto di bambù che ci ha sbarrato la strada e ci affacciamo su un tratto di terreno scosceso in cui defluisce un rigagnolo. Seguiamo il corso d’acqua, che scorre lungo un letto di ciottoli, e raggiriamo una parete rocciosa dietro la quale si schiera una boscaglia di conifere. Come guardiani che ci osservano dall’alto, gli alberi circoscrivono le mura imponenti del convento. Costeggiamo il confine invalicabile seguendo Ivonne che, in un cambio repentino di direzione, ci conduce davanti una parete di pietra mimetizzata da cespugli d’erba, rampicanti e rovi che si intrecciano in un cancelletto di ferro rugginoso. Le grate chiudono il varco alla scalinata che si canalizza nell’entroterra: la gola profonda di una grotta che espelle aria satura di umidità.
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«La serratura è ricoperta di ruggine; non si aprirà mai» dico strattonando l’inferriata. Alex gratta la superficie della serratura con un coltello.
«Uomo di poca fede» ribatte tirando fuori dallo zaino uno sbloccante spray. Spruzza il prodotto in tutta la superficie e consulta l’orologio. «Dobbiamo aspettare qualche minuto». Sicuro, sceglie uno dei grimaldelli e armeggia con maestria sulla serratura. «Con questi aggeggi ho aperto la porta del bar del signor Gerardo, il Pick-Up quando persi le chiavi e svariati lucchetti di bicicletta» specifica ridendo. «Ci vuole metodo e un po’ di pazienza».
Strattoniamo la cancellata; la serratura si allinea e agevola lo scatto d’apertura. Strappiamo i rampicanti intrecciati sulle barre e riusciamo ad aprire il necessario per oltrepassare la soglia.
Ivonne punta la torcia del cellulare sui gradini: pietre divorate dal tempo che precipitano nell’abisso dell’ipogeo.
«Siete sicuri di voler scendere lì sotto?» chiede Alex deglutendo. «Che ne pensate se rimango qui a fare da palo?»
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«Mi sembra sensato! Rimani a sorvegliare l’ingresso, non possiamo rischiare che qualcuno ci chiuda dentro, rimarremmo intrappolati come topi in gabbia. Passami la videocamera».
«Non ci penso proprio! Questa termo-camera a infrarossi è l’oggetto che mi è costato di più. Ha una risoluzione di 307.200 pixel, non so se mi spiego. Tra l’altro non la sai usare».
«Ok. Allora io rimango qui e tu scendi con Ivonne».
«Tieni la camera! Cazzo, potete chiedermi qualsiasi cosa ma non di scendere lì sotto. Ho la claustrofobia! Sai come funziona la telecamera?»
«Trecentomila pixel di risoluzione sono difficili da gestire ma ci provo! Premo REC per riprendere e stop quando ho finito, giusto?»
«È già impostata per la visione notturna. Fate attenzione, non vorrei dovervi venire a cercare!»
Alle nostre spalle, il primo chiarore del mattino. Varcata la rampa di scale, l’accesso si restringe in un angolo soffocante e si riapre lungo un’altra scalinata che non ha mai visto la luce del sole.
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Inghiottiti dall’ipogeo, con la torcia dello smartphone che stenta a contrastare lo spessore delle tenebre, ci troviamo a cospetto di una porta di legno fradicia. Attraverso le crepe, scrutiamo l’interno di un luogo che sembra non esistere. Una folata d’aria acida, che sa di terra e morte, ci accarezza il viso mentre, mano nella mano, oltrepassiamo l’uscio. Stretti nel silenzio, percorriamo un corridoio angusto che ci costringe ad avanzare in fila indiana; l’ossigeno è ridotto, fetido. Il passaggio si divide in una biforcazione; Ivonne si arresta. Sento il battito del suo cuore. Il respiro. Lenti, tastiamo il terreno ad ogni passo e cerchiamo di proteggerci il viso con le braccia puntate in avanti.
Un rantolo riecheggia nella cripta. Un gemito sottile. Tagliente. Io e Ivonne ci ritroviamo in uno sguardo mentre il suono corposo di gocce d’acqua, che precipitano in un ristagno, scandisce l’assenza del tempo. Con il cuore in gola, tratteniamo il respiro in attesa che quel gemito si ripeta.
«Cos’era?» sussurro all’orecchio di Ivonne.
«Un lamento».
Seguiamo le tracce di quel suono luciferino brancolando nel buio. Passi veloci scanditi dagli acquitrini e dallo squittio di topi che ci lasciano il varco mentre attraversiamo una massa d’aria putrida.
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Ivonne punta la luce sull’arco in pietra che delimita l’ingresso di una piccola stanza scavata nella roccia. Il tetto a volta fa da cornice a uno scenario sconcertante.
«Riprendi tutto! Ogni cosa».
Stretta fra catene e mosche, posizionata su una delle sedute di cemento presenti lungo la parete, c’è quello che rimane di una donna che, per istinto, riesce ancora a respirare. La testa pendula e i capelli sottili aggrovigliati come ragnatele puntano il suolo. Il corpo scheletrico coperto da uno straccio è allineato con un foro sul cemento che sbocca in un vaso d’argilla posto nel vano sottostante. La pelle, trasparente come pellicola, è infetta su più punti, satura di escoriazioni che ospitano insetti.
Il respiro della donna incalza. È sempre più veloce. Rantoli pesanti. Si arresta.
Con la piega del gomito sulla bocca, valico la catena che delimita l’ingresso in quella sorta di stanza della morte e mi avvicino.
«Fermo! non puoi fare niente per lei».
«Un attimo fa respirava!»
«Il suo cuore ha smesso di battere adesso, ma la sua anima aveva abbandonato tutto ormai da tempo. Lascia che riposi in pace».
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Lungo la parete ci sono nicchie che contengono vasi di terracotta e teschi.
«Che cazzo è questo schifo?»
«Siamo dentro le segrete e questo è il purgatorio delle sorelle. Se vieni condotto in questi luoghi puoi uscirne solo da morto. È qui che mi avevano rinchiuso, e questa è la fine che avrei dovuto fare».
«Ci sono altri due loculi adiacenti, uguali a questo» dico puntando la videocamera su altre due sedute in cemento «Fortunatamente sono vuote».
«È un Putridarium. Risale al XX secolo. I corpi delle suore defunte, per essere purificati, venivano posti su questi scolatoi. Si chiamano così perché i corpi in putrefazione rilasciano i liquidi che attraverso il foro si raccolgono dentro il vaso posto sotto la seduta. Le ossa, successivamente, venivano raccolte e seppellite nell’ossario. Sembrava fosse una pratica che attuava qualche mente distorta in un periodo in cui l’ignoranza e il male facevano da padrone, invece, ancora oggi c’è qualcuno in grado di fare peggio e condanna le sorelle ancora in vita a patire questa sofferenza».
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Riprendo tutto da ogni angolazione: i loculi, i teschi, il cadavere della donna, fino a inquadrare un recipiente sul quale giacciono degli oggetti. Ivonne svuota il contenuto sul pavimento.
«Le sorelle condannate a questa tortura dovevano liberarsi di ogni oggetto. Le facevano spogliare dell’unica cosa che, attraverso i ricordi, le teneva in contatto con il mondo esterno, con le persone care che non vedevano da decenni. Una collana, un fazzoletto, una fotografia… In questo modo perdevano l’unica motivazione che le avrebbe indotte a lottare per sopravvivere e si sarebbero abbandonate alla morte più velocemente».
Fra gli oggetti raccolgo una fotografia. «Forse apparteneva proprio alla donna che abbiamo visto sospirare». L’immagine è corrosa sui bordi ma non è alterata. Ritrae un bambino. Ha il viso corrucciato ed è sdraiato su un fasciatoio.
«Chi può saperlo. L’unica cosa certa è che qualcuno o, qualcosa, ha voluto darle la forza per continuare a sopravvivere fino al nostro arrivo».
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Il frastuono di uno sparo si canalizza attraverso i cunicoli delle segrete e viene a toccarci la pelle: un brivido freddo congela ogni intenzione e dà il via a una corsa sfrenata fuori da quel luogo maledetto. Guidati dall’istinto, ripercorriamo i passaggi sotterranei attraversando ombre dannate che ci fissano. L’eco dei passi, nella ricerca disperata della luce, è un rintocco che squarcia il silenzio. Scivoliamo sui gradini che si sgretolano sotto i piedi e, accecati dal sole, ci precipitiamo fuori dall’inferno in cui ci siamo affacciati.
Nessuna traccia di Alex. Lo cerchiamo in ogni direzione e, arresi, ripercorriamo il sentiero che ci aveva condotto fin lì. Oltrepassiamo il fiumiciattolo e lo vediamo addentrarsi fra le canne di bambù. Piegato sul tronco per il fiatone, osserva il corpo esanime del contadino che giace sul suolo con il fucile ancora sottobraccio.
«Questo figlio di puttana mi ha sparato» dice appoggiandosi a un albero. «L’ho inseguito e si è accasciato per terra; gli sarà venuto un infarto. Che cazzo pensava di fare, avrà più di ottant’anni» finisce ansimando.
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Alex scivola lungo l’arbusto fino a trovare il suolo. Con la mano tremolante, imbrattata di sangue, preme sul costato. Ivonne gli tira via la maglia bucata dai pallini di piombo, la ripiega e tampona con forza spingendo sulla ferita aperta.
«Mi sono avvicinato per parlargli…» continua singhiozzando «”Sono solo” gli ho detto; lui ha tirato fuori il fucile e…»
«Cazzo! Sta zitto adesso, andiamo in ospedale». Con il braccio intorno al collo cerco di sollevarlo. Alex prova a spingersi sulle gambe ma i piedi scivolano sul terreno, senza forze, grida per il dolore.
«Aspetta. Non ce la faccio, fermati». Sputa sangue e si abbandona sul terreno boccheggiando.
«Non possiamo aspettare!» Sui suoi occhi calano le palpebre. «Ivonne, aiutami, dobbiamo tornare a casa, prendere tutto e andare via!»
«Drag…» rantola Alex. Mi inginocchio. Poggio la fronte sulla sua e gli trattengo la testa. Mi concede uno sguardo. L’ultimo. «Africa».
Ivonne lo stringe fra le braccia, gli accarezza il viso e lo guarda mascherando il dolore con un sorriso. Alex ora è sereno, i suoi occhi toccano la luce. Con un sospiro che cancella per sempre la tensione dal suo volto, vola via fra le cime degli alberi come vento che soffia il profumo dei pini.
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Secondo cerchio
OPHIOCORDYCEPS
Abbiamo abbandonato il corpo di Alex sul letto del fiume con una consapevolezza: tutti, un giorno, doneremo il nostro corpo alla natura e ritroveremo l’essenza in uno spazio privo di materia.
Rientrati in casa, trascorremmo giornate intere nel silenzio a recuperare energie e contemplare ricordi in un luogo che non ci apparteneva più. La morte di Alex strappò le pagine di un libro che avevamo scritto a sei mani. Un immaginario che ci aveva reso liberi, ma che, a tempo debito, si è dovuto confrontare con le decisioni scritte dalla vita.
Ivonne tira fuori da un cassetto la busta che ci era stata consegnata da suo padre; era stata aperta. Alex si era appropriato del contenuto ma ci aveva tenuto allo scuro di tutto. La busta contiene una carta di credito, un documento firmato e rilasciato dalla banca con dei codici di accesso e un foglio con poche righe.
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“Ho fatto un biglietto di sola andata per l’Olanda; io e Andrea ci sposiamo. So che mi odi, come sapevo perfettamente che non mi avresti dato la possibilità di parlarti, ma non potevo esimermi dal comunicarti quanto segue. Nella busta c’è una carta di credito con 20.000 euro, fanne ciò che desideri. Non è un indennizzo per comprare la tua stima o il tuo perdono, per fortuna o purtroppo ci sono cose che non hanno prezzo. Consideralo semplicemente un modo per semplificarti la vita.
Ho un cancro. L’ho saputo parecchi anni addietro, precisamente una settimana prima di avervi confessato di essere omosessuale, ho preferito provocare rabbia piuttosto che compassione. Il rapporto con tua madre si era già consumato e non sarebbe stato opportuno tenerla legata a me per pietà. Ho curato la malattia per anni e adesso si è ripresentata più forte di prima. Non so quanto tempo mi resta. Ho perso ore preziose del mio tempo per cercare una risposta a questa domanda ma ho capito che i medici sentenziano verità tradotte dall’esperienza e a volte sbagliano. Quindi ho preferito non sapere. Il senso della vita lo ritrovi nella qualità di un giorno vissuto appieno, non di certo nella quantità di anni vissuti nell’ombra. Per questo ho deciso di vivere ogni momento come una benedizione senza cercare l’approvazione di nessuno. Abbi cura di te.”
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Alle sei del mattino siamo davanti la saracinesca dell’officina di Carmelo. Il nostro vecchio Pick-Up potrebbe essere stato segnalato e, visto che ci accompagnerà in un lungo viaggio, merita una messa a punto e un restyling che Alex avrebbe voluto tanto.
«Ci vogliono due giorni per fare il lavoro che mi avete chiesto, prima devo consegnare un’auto sulla quale sto lavorando» dice Carmelo, ancora assonnato, con la tazzina di caffè sotto il naso. «Posso darvi un’altra auto in un’ora e vi faccio spendere di meno».
«Non hai capito!» rispondo anticipando Ivonne che lo aveva trafitto con lo sguardo. «Non abbiamo nessuna intenzione di cambiare auto, vogliamo questa, e ci serve stanotte, con le modifiche che ti abbiamo descritto. Fai il prezzo e mettiti al lavoro!»
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Vernice nera opaca, bull bar anteriore antracite. Fari ausiliari sul tetto, telecamere anteriori e posteriori collegate a un display interno touch screen da otto pollici. Ribattezzato con il nome di Alex, carichiamo bicicletta e valige nel cassone del Pick-Up, pronti per un lunghissimo viaggio in cui ci accompagneranno sensi di colpa e malinconie.
Diretti nuovamente a sud, nella mia città natale, io e Ivonne tocchiamo il vento fuori dal finestrino e ci guardiamo negli occhi tutte le volte che cerchiamo il nostro compagno di vita con lo sguardo. Lo troviamo nei sedili posteriori, durante uno scambio di parole, lì, dove sarebbe stata scontata una sua battuta, un suo movimento. La mancanza di Alex è come un urlo nell’orecchio a cui non ci abitueremo mai.
Anzio.
Al suono della campana, una flotta di ragazzini si rincorre fuori dalla scuola elementare Vittorio Emanuele, la stessa che ho frequentato da bambino. Sono sette anni che non vedo mia sorella e il pensiero di essere stato assente nella sua vita, a tal punto da prendere in considerazione di non riconoscerla, mi fa tremare il cuore.
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Fra urla e risate assordanti che ripercuotono nell’aria quel senso di spensieratezza che solo i bambini posseggono, scruto ogni probabile viso che possa ricordarmi di lei.
Occhi grandi e neri allungati in fuori, labbra disegnate, capelli lunghi e mossi tenuti a bada con un fermaglio. Mano nella mano con una compagna entra nel minibus. È lei. Lo so.
Con un colpo di clacson, il pullman avvisa del suo arrivo e spalanca la bussola davanti il viale di casa. Osserviamo Sofia che corre fino all’ingresso, lascia scivolare lo zaino sulle mani di Bernadette che la stringe in un abbraccio e la riempie di baci.
Dalla finestra, le intravedo muoversi dentro casa, mi chiedo che cosa sia cambiato da allora e cosa è rimasto al proprio posto. Ivonne asseconda con il silenzio ogni pensiero che riesce a leggermi nello sguardo. Mi prende per mano e mi trascina fuori dall’auto, davanti la porta di casa. Suona il campanello e indietreggia.
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«Ciao mamma!» Con una smorfia che fonde un sorriso di circostanza e uno shock, Bernadette cerca di formulare una frase che, in qualche modo, la tiri fuori dalle sabbie mobili in cui si è trovata di colpo. «No, non dire nulla». Le sue labbra tremano. «Voglio solo sapere dov’è mio padre».
«Non avrei mai creduto che un giorno ti avrei rivisto».
«Infatti, è così. Non sono la stessa persona di prima. Ciò che conoscevi di me esiste solo nei tuoi ricordi».
Bernadette sorride isterica.
«Parli come tuo padre. Non so che idea ti sei fatto di me, io ho soltanto voluto che fossi libero di scegliere».
«Non posso che esprimerti la mia gratitudine. Non hai mai denunciato la mia scomparsa, e anche se la tua scelta è stata prettamente egoistica, centrata sull’intenzione di liberarti di un figlio nel silenzio, per la prima volta nella vita mi hai reso tutto più semplice. Grazie al tuo disinteresse ho potuto concedermi una vita diversa da quella che mi avresti consentito di avere se mi avessi cercato e riportato a casa, continuando a fare finta di essere mia madre».
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«Non parlarmi così. A volte le cose non vanno come vorresti e fai degli errori, tutto qui. L’unica colpa che ho è quella di non averti dato le spiegazioni necessarie per metterti al corrente dei fatti. Eri un ragazzino, avevo paura che la notizia potesse turbarti, che non riuscissi a capire, e che soffrissi nel silenzio cadendo in uno stato depressivo, proprio come tuo padre».
«Già, come mio padre. Avevi paura che facessi la sua stessa fine? E cosa hai fatto per evitarlo?» Bernadette guarda il cielo. «No, non rispondermi, non è più importante ormai. Sono qui perché voglio cancellare definitivamente il mio trascorso, non di certo per aggiungere nozioni a un insegnamento che non mi hai dato. Voglio sapere com’è morto mio padre e dov’è seppellito».
«Dragan, tuo padre non è morto!»
Ivonne mi stringe la mano. Mi sento stupido e piccolo. Ho dato per scontato che la confessione di Bhauer, e cioè quella di un uomo con la mente annebbiata dal delirio, fosse una netta descrizione della verità.
«Dov’è? E come sta?»
«Si trova nella casa di cura di Monferrato, sulla statale 107. Sta bene».
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«Una casa di cura? Perché?»
«Perché è più semplice per tutti. Lo tengono sotto osservazione 24 ore su 24. Non gli fanno mancare nulla. Da quando sei andato via è peggiorato molto. Vivere sotto lo stesso tetto era diventato un inferno. Sofia era troppo piccola e non riuscivo più ad occuparmi di entrambi».
«È una cosa che non hai mai fatto!».
«Adesso smettila con le accuse. Ho dovuto fare una scelta, non lo capisci?»
«L’unica cosa che sei riuscita a fare è stata impadronirti della sua vita per un tornaconto personale. Un atto subdolo, per quanto mi riguarda, peggiore di un assassinio. Era già un inferno quando sono andato via».
«Non cammina, non parla. Non piange e non ride. Guarda nel vuoto e farfuglia nel sonno. Cosa avrei dovuto fare? Continuare a maledire ogni giorno della mia vita? O accettarla come se fossi stata condannata!»
Le parole di Bernadette mi scivolano addosso. Non ha ancora capito che conosco la verità. Non può immaginare, neanche lontanamente, a quale obiettivo abbia dedicato il mio tempo e quale sia stata la condanna che ha subito il dottor Philip Bhauer.
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«Sai cos’è l’Ophiocordyceps?» Bernadette alza le spalle. «È un fungo. Le sue spore si attaccano alla pelle di un altro organismo vivente con lo scopo di proliferarsi. Non lo uccidono, lo mantengono in vita e agiscono direttamente sul suo sistema nervoso per alterarne il comportamento. L’essere vivente infestato, inconsapevolmente condizionato da un nuovo istinto, inizia a ricercare luoghi umidi, ideali per la crescita del fungo. Soltanto dopo morirà». Una smorfia di disgusto maschera il viso di Bernadette che, sopraffatta, rimane senza parole. «Il dottor Bhauer ha avuto ciò che si meritava. Ovunque si trovi stai certa che ha capito. In quanto a te, solo una cosa ho da dirti: riprenditi l’anima che hai venduto al diavolo e occupati di tua figlia nel migliore dei modi».
«Chi è mamma?» chiede Sofia usando le gambe di Bernadette come scudo.
«Ciao, sono un venditore ambulante».
Mia sorella esce allo scoperto e ci squadra dalla testa ai piedi.
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«E cosa vendi? Non hai niente con te!»
«Vendo verità. Ne ho appena venduta una alla tua mamma».
«Ma le verità non si possono vendere. E neanche le bugie».
«È vero! Però possono essere barattate».
«Che vuol dire barattate?»
«Vuol dire che io dono una cosa a te e tu ricambi donandone una a me. Uno scambio. Io baratto verità in cambio di una reazione emotiva».
«Baratti una verità anche a me?»
«Certo, avvicinati» chiedo piegandomi sulle ginocchia. «La verità è che sei la bambina più bella che io abbia mai visto». Sofia mi regala un sorriso, incuriosita guarda Ivonne.
«Lei è la tua fidanzata?»
«No».
«Ho capito allora… È tua moglie».
«No, è molto di più. Quando sarai grande capirai che niente è più importante di qualcosa che non riesci a identificare con una parola. Adesso devo andare, ma prima, per la legge del baratto, devi ricambiare la verità che ti ho regalato con un abbraccio».
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Sofia cerca il consenso negli occhi di sua madre che annuisce. Stringo mia sorella fra le braccia e conservo il profumo della sua anima nella mia memoria.
L’inserviente spinge la carrozzina lungo il portico. Attraverso i listoni di legno del passamano, osservo il profilo di mio padre puntato in avanti e cerco di tenere a bada l’emozione che, con i suoi tentacoli, si aggroviglia allo stomaco. L’assistente schiaccia il freno di sicurezza.
«Lei è il figlio?
«Si, sono Dragan Codermak».
«Non l’avevo mai vista prima e, sinceramente, non sapevo che il signor Codermak avesse un altro figlio oltre la piccola Sofia».
«È la prima volta che vengo in questo posto, non vedo mio padre da sette anni».
«Capisco, vi lascio soli allora. Avete mezz’ora».
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«Aspetti! Non c’è un medico con cui posso parlare? Qualcuno che mi spieghi, esattamente, cos’ha mio padre?»
«I medici vengono solo per le visite di routine. Esattamente!» ripete beffeggiandomi «Questo non è un ospedale. Lei si fa vivo dopo sette anni e vuole sapere, esattamente, cos’ha suo padre?!»
Guardo Ivonne, poi mio padre immobile sulla sedia a fissare il vuoto.
«Lei non sa nulla di me, nulla per cui io possa giustificare l’attacco a cui mi sta sottoponendo. Né tanto meno ha idea di cosa mi abbia potuto tenere distante da mio padre per così tanto tempo. Ora, se non le dispiace, vorrei passare mezz’ora con lui».
«In realtà, adesso, sono ventotto minuti» conferma consultando l’orologio. «Suo padre non mangia se non è forzatamente imboccato ed è compito mio farlo prima di timbrare il cartellino e tornarmene a casa. Sono due anni che lo imbocco, gli pulisco il viso e gli lavo il culo! Se vuole può accedere per la visita pomeridiana, oppure può passare fra altri sette anni» conclude dileguandosi. Ivonne gli sbarra la strada.
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Chi cazzo credi di essere, coglione!? Se hai qualcos’altro da dire, da rimproverare, un punto di vista da esporre, fallo adesso. Dicci chiaramente quello che pensi, che noi, altrettanto chiaramente, ti faremo sapere quanto non ci freghi un cazzo della tua opinione». L’inserviente indietreggia guardandosi intorno. «Hai detto che sono due anni che lo imbocchi? Bene, anche se non sei un fottuto medico, saprai darci qualche chiarimento in merito. E fanculo al pranzo!» L’uomo deglutisce ed espira il fiato che aveva trattenuto.
«Suo padre crede di essere morto. È un Cotard. Ne ha mai sentito parlare? La sindrome di Cotard inibisce la percezione delle emozioni, delle sensazioni; fisiche e mentali. Viene descritta come un delirio di negazione, un distacco completo dalla realtà dovuto a tanti fattori legati a varie forme di depressione. Suo padre non avverte nulla del suo corpo: arti, organi. Non percepisce nulla a livello emotivo: tristezza, contentezza, rabbia. Tutto questo induce il suo cervello a credere di essere passato a miglior vita. Di conseguenza, si comporta come tale. Non mangia, non beve, non comunica. Non esiste».
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«Da quanto tempo è in questo stato?»
«Da più di tre anni. Mi chiamo Stefano Carbassi, seguo suo padre per ogni tipo di necessità quotidiana. Scusate se sono stato irruento ma non sopporto le ipocrisie. Ho conosciuto il signor Codermak in questo stato e non riuscirei a immaginarlo diversamente, per me è normale così. Non è mia abitudine mettermi nei panni della gente, significherebbe prendermi carico di ogni dispiacere e non potrei fare questo lavoro. Spero siate soddisfatti della relazione. Adesso se non vi dispiace avrei altro da fare» finisce dileguandosi.
Guardo mio padre e cerco di cogliere una sfumatura d’umanità dentro la maschera di pece che gli ha divorato il volto. Ivonne sorride e mi bacia la mano.
«Ciao Papà». Silenzio. Mi muovo dentro il suo sguardo, un abisso in cui l’assenza di luce ha freddato ogni sensazione. «Sono Dragan, lo so che riesci a sentirmi. Anche se non mi rispondi vorrei dirti tante di quelle cose che non so da dove iniziare».
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La mia voce lo lascia indifferente, il suo viso non ha alcuna reazione. «Sai a cosa pensavo? A quando ero bambino e mi raccontavi delle storie per farmi addormentare. Racconti fantastici che non avevano nulla a che vedere con le classiche favole che da sempre accompagnano il sonno di ogni bambino. Narravi storie fuori dal comune, inventate sul momento, che mi facevano l’effetto contrario tenendomi sveglio e attento. Le tue parole stimolavano la mia immaginazione a tal punto che riaprivo gli occhi per non essere totalmente rapito dallo scenario che prendeva forma nella mia mente. Spegnevi la luce e andavi via mentre facevo finta di dormire. In realtà rimanevo a pensare; le immagini sfocavano per lasciare posto alle riflessioni. Mi chiedevo se c’era un modo per diventare così bravi a narrare le storie, e se la fantasia, oltre a essere una dote innata, poteva essere acquisita in qualche modo. Volevo essere come te». Ivonne asciuga le lacrime e si mantiene distante. «E ricordi quella volta in cui mi hai sorpreso a leggere i tuoi appunti? Ho provato mille volte a chiederti il permesso ma non riuscivo a farlo: sapevo di aprire la porta di una stanza in cui si nascondevano i tuoi pensieri più intimi e avrei voluto che fossi stato tu a coinvolgermi nella lettura. Ma un giorno la sete di curiosità ebbe la meglio».
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Con una risata coinvolgo Ivonne e la invito ad avvicinarsi a noi. «Di soppiatto entrasti nella stanza da letto e mi sorprendesti a leggere i tuoi appunti. Misi i fogli sulla sedia e mi ci sedetti sopra. “Non fermarti e leggi ad alta voce” dicesti. Come se nulla fosse, li tirai fuori tutti sgualciti, li risistemai alla buona e ripresi a leggere. Sai Papà, ricordo bene quel concetto che accese l’amore che nutro per le parole. L’ho imparato a memoria e voglio ricordartelo adesso. La magia delle parole è nel loro limite. A volte non sono capaci di rendere giustizia alle emozioni, non posseggono abilità tali per descriverle in ogni sfaccettatura. Ma te ne fanno sentire l’odore, percepire il sapore. Grazie a questo limite, ne custodiscono il senso più profondo, lasciandone l’essenza nell’animo di chi le ha provate e stimolando l’immaginazione di chi le ha soltanto lette. Capii che da un limite può scaturire una magia, che da una mancanza nasce la voglia di fare, di mettersi in gioco. Soprattutto, capii che le parole sono uno specchio per il lettore, e mai come in tutti questi anni mi sono specchiato in ogni concetto che hai scritto, papà».
A un soffio dal viso, lo guardo dritto negli occhi e gli prendo le mani: pezzi di ghiaccio in un corpo che non si scompone.
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«Lei è Ivonne. Sono sicuro che se la conoscessi mi diresti che sono un uomo fortunato e che non avrei potuto incontrare una persona migliore. La sua vita si è incrociata con la mia dal primo giorno in cui andai via di casa e, insieme, affronteremo un viaggio per chiudere l’ultimo cerchio».
Come un’ombra che avanza oscurando ogni cosa, le pupille dilatate hanno spento le iridi celesti lasciando posto allo smarrimento.
«Papà, ho fatto quello che dovevo. Ho scritto ogni cosa e non sai quanto vorrei che fossi tu il mio primo lettore. Manca soltanto una conclusione degna. La cercherò in te e nel viaggio che affronterò per raggiungere Agata. A presto!»
Senza dire una parola, l’assistente sblocca il freno e tira indietro la carrozzina. In un flash, lo sguardo di mio padre incrocia il mio. Un movimento impercettibile delle pupille che contiene qualcosa di straordinario: la vita.
Lo seguo lungo il portico. Mi faccio strada fra i carrelli con il pranzo che gli inservienti stanno per servire. Continuo a fissarlo fino a che scompare dietro il mio riflesso sulla porta a vetri.
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