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Introduzione
Il cuore è soltanto un muscolo. Un organo che pulsa. Può mantenerci in vita nonostante l’assenza di stimoli cerebrali, scosse emozionali, sensazioni. Questo era diventato mio padre, un uomo privo di ogni pulsione vitale. Un corpo imprigionato nel suo stato mentale. Rivederlo in quelle condizioni è stato più difficile che crederlo morto.
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Capitolo 13
IL TERZO CERCHIO

Roberto Puccio
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Il terreno arido e sconnesso su cui viaggiamo da quattro ore è l’ideale per testare il Pick-Up dai nuovi connotati che adesso porta il nome di Alex. Spingo sull’acceleratore e abbordo un paio di curve in cui veniamo sbalzati dal sedile. Ivonne si sostiene alla maniglia, ride e mi maledice, mentre alle nostre spalle, con i copertoni che sdrucciolano, disseminiamo un polverone che vela il tramonto fiammeggiante del territorio africano: sfumature di terra e fuoco mescolate all’orizzonte dal vento di scirocco.
Nell’auto davanti a noi ci sono Mohamed e Rahsaan, le nostre guide. Due ventenni a bordo di una Jeep militare che ha conosciuto la guerra civile del 1994 in Ruanda, la destinazione del nostro viaggio. Dopo un’estenuante attesa alla frontiera, fra disbrigo permessi, timbri e sguardi diffidenti, i due riescono a farmi ottenere il permesso di guida internazionale, e dietro un modesto compenso economico che eguaglia lo stipendio medio di un mese di lavoro per entrambi, hanno accettato di accompagnarci lungo un viaggio di circa quattromila chilometri che, dall’Egitto, ci condurrà fino a Kigali: la capitale dello stato africano in cui siamo diretti.
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La cittadina ospita congregazioni di suore missionarie che operano come insegnanti nei villaggi limitrofi e, proprio lì, in una delle strutture scolastiche primarie, insegnano, da circa dieci anni, due sorelle provenienti dal convento della Sacra Croce Slovena.
In un rettilineo che taglia distese aride proiettandosi nell’infinito, Ivonne visualizza le foto che ho scaricato dal sito dell’associazione Cuore Nero, una Onlus che raccoglie fondi con lo scopo di costruire nuove scuole nell’Africa subsahariana: la fetta del continente più povero a sud del deserto detta anche Africa nera. Sono bastate un paio di e-mail e una donazione all’istituto per avere tutte le indicazioni necessarie, informazioni che hanno nutrito aspettative e assegnato un carico estremo al nostro viaggio. Un percorso che unisce le ultime tessere a un mosaico progettato dal destino. Frammenti che contengono un sogno, nascosto da una sensibilità che Alex non ha mai mostrato, e una verità, quella tenuta in serbo da una donna che ha abbandonato tutto per dedicare la sua vita a un progetto missionario.
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Seguo il profilo spigoloso delle piramidi, costruzioni che donano un’aura mistica al territorio, e tengo fra le dita la foto di un bambino in un fasciatoio; lo scatto che abbiamo recuperato nelle segrete del convento della Sacra Croce Slovena. Collego l’immagine con le parole di suor Benedetta, la donna centenaria con cui mi sono confrontato alle porte del monastero. Quando le chiesi di suor Agata, parlò di una sorella che portava sempre con sé la fotografia di un bambino, inoltre, prima di sparire dietro il portone, confessò di conoscere la donna che mi aveva concepito, come se stesse parlando della stessa persona. Se questo bambino fossi io, e se mia zia Agata, in realtà, fosse mia madre, probabilmente la sua esistenza si sarà consumata all’interno delle segrete, e la storia della donna missionaria potrebbe essere soltanto una copertura per giustificarne l’assenza dal convento.
Rivivo quello scenario subdolo che si consumava alle porte di Lucifero, una realtà che abbiamo interamente filmato e consegnato anonimamente alle autorità prima di salpare in nave per attraversare il Mediterraneo. Il video che abbiamo condiviso, sotto falso profilo nei vari social network, è diventato virale nel giro di due giorni, innescando una bomba mediatica che ha provocato denunce, richieste di indennizzo e confessioni inconfutabili da parte delle monache interrogate dalle forze dell’ordine.
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Le sorelle hanno messo a nudo i crimini commessi da suor Badessa e i soprusi dei preti che si insinuavano a scopo lussurioso nel luogo consacrato. Il convento della Sacra Croce Slovena è stato posto sotto sequestro, la magistratura sta indagando sulla congregazione di preti e sorelle responsabili di abusi sessuali, pratiche di tortura, omicidi e occultamento di feti.
Paghiamo la tassa al casello e superiamo un controllo della polizia. Acquistiamo provviste, casse d’acqua e taniche di gasolio. Mohammed e il suo compare si intrattengono in una sorta di officina in cui ricavano, a buon mercato, accessori che ci potrebbero tornare utili durante la traversata del deserto: una batteria per l’auto, dei cavetti, olio motore e guarnizioni.
La striscia di asfalto brucia sotto il sole cocente delle nove e trenta del mattino a una temperatura di cinquanta gradi all’ombra. Una lingua nera che taglia il territorio desertico in cui si presentano, ciclicamente, piccoli rilievi montuosi e dune.
Ivonne sporge la testa dal finestrino e respira a occhi chiusi. Un nuovo bagliore le ha illuminato il viso, concedendole di abbandonare quell’espressione di risentimento granitico che non le apparteneva.
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Dopo nove ore di viaggio, siamo a cento chilometri da Assuan, la cittadina a sud dell’Egitto sulle rive del Nilo. Questo è ciò che ci comunica Mohamed dopo l’ennesima sosta per pisciare, mangiare un boccone e reintegrare il liquido refrigerante nei motori delle auto.
In balia di un vento prepotente che ci spinge contro aria e fuoco, ci indica un muro di terra che ha oscurato il cielo all’orizzonte: una tempesta di sabbia. Nel giro di un’ora, ci troviamo a fronteggiare uno scenario apocalittico che ci costringe ad arrestare la corsa. Nubi alte centinaia di metri spengono il sole, si aggrovigliano in un vortice e danno vita a un unico essere supremo che ci priva di visibilità e percezione, investendoci con un abbraccio soffocante. Fermi in mezzo al nulla, con i finestrini serrati, subiamo la violenza del vento che strattona l’automobile. Respiriamo il calore dei nostri corpi e, finita l’ennesima bottiglia d’acqua, ci guardiamo con la complicità di chi sta vivendo qualcosa di surreale.
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Ivonne abbandona i punti di appiglio e afferra le mie mani, tampona il sudore sulla mia fronte e sorride.
«È fantastico» dice serafica. «La vita ti riserva sempre qualcosa di straordinario e imprevedibile». Rimango inerme, stupito ancora una volta. La meraviglia con cui si propone la donna che amo è capace di tirarci fuori da ogni condizione di apparente prigionia. In uno stato di totale abbandono, dentro una nube di terra e fuoco che ci ha riservato uno spazio fuori dal mondo, Ivonne chiude gli occhi e mi bacia, lentamente, come non aveva mai fatto.
«Voglio sposarti» dico catturando l’attimo in cui ritorno a respirare. Sulle labbra sento il sapore delle sue lacrime. Un gusto nuovo che sa di felicità.
Pernottiamo in pensione e ci concediamo il lusso di una cena intima e una doccia fredda; nelle prossime dieci ore saremo fuori dall’Egitto. Per la prima volta dopo la morte di Alex, io e Ivonne viviamo un’intimità esclusiva e facciamo l’amore fra sorrisi e lacrime. Il sentimento che avevamo condiviso, contraddistinto dalla leggerezza con cui abbiamo portato avanti la nostra relazione a tre, ha subito una metamorfosi, è diventato qualcosa di esclusivo in cui ci identifichiamo.
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Affacciati al nuovo giorno, racimoliamo forze e stimoli necessari per superare la frontiera del Sudan. Rahsaan ci invita a stare zitti mentre Mohamed si presenta, documenti alla mano, ai soldati che presidiano una casetta circoscritta da tende. Gli uomini al corpo di guardia sono palesemente ubriachi. Fumano seduti su delle casse di birra in cui hanno abbandonato le mitragliatrici. Tre di loro, agitati come se avessero l’orticaria, ci perquisiscono farfugliando frasi incomprensibili. Dopo uno sguardo veloce ai documenti, impugnano le armi e frugano dentro l’auto alla ricerca di qualcosa che non c’è. In uno scambio di occhiate, invito Ivonne a non muovere un dito. Conosco bene il suo stato di calma, e quando questo viene violato il suo subconscio si depriva di ogni freno inibitore. Prima che la situazione degeneri, faccio fede al lascia passare universale. Con un’inevitabile mazzetta, che si rivela esattamente ciò che i militari volevano ottenere, ci lasciamo alle spalle i loro volti soddisfatti e attraversiamo la linea immaginaria di confine in direzione della costa che tocca le acque del Mar Rosso.
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Attraversiamo una fetta dell’Eritrea mentre vediamo sorgere e tramontare il sole dentro scenari che ritraggono il volto autentico della natura. Le giornate si fondono in un tempo unico che non viene scandito da orari e abitudini, e dopo un’altra notte trascorsa in auto a contemplare un cielo su cui risplendono i nostri sogni, ripartiamo, incontro a un estenuante tragitto in cui ci concediamo poche ore di recupero spingendo al massimo i motori delle auto.
Il Pick-Up si arresta per un’avaria al motore: Alex ha deciso di fermarsi nei pressi di un promontorio roccioso da cui possiamo godere di una vista dal sapore onirico che ci fa smettere di respirare.
«È il lago Assal» dice Mohamed mentre una nube di fumo si sprigiona dal cofano dell’auto.
Uno specchio d’acqua turchese riflette i colori di un luogo magico. Tocca una distesa di sabbia bianca, cristallina come ghiaccio, su cui stanno lasciando le impronte tre fenicotteri rosa. La spiaggia, costituita da cristalli di sale, in alcuni punti ha formato lievi ridossi bianchi che circoscrivono conche d’acqua trasparente. Io e Ivonne scivoliamo lungo il pendio e immergiamo i piedi in quell’acquerello caraibico sbucato dal deserto.
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Rinfrancati gli animi e sostituita la batteria del Pick-Up, abbandoniamo la costa per attraversare la terra che, dal basso, osserva gli altopiani etiopi, luoghi in cui l’uomo non ha ancora stravolto l’equilibrio naturale delle cose. Ivonne impugna la telecamera e salta sul cassone dell’auto. Decine di Marabù spiccano il volo mentre tagliamo un corso d’acqua che traccia una scia di vegetazione. Le ruote del Pick-Up scavano per prime il solco su un terreno vergine in cui affianchiamo una mandria di zebre che si libera in una galoppata senza freni, uno scalpitio di zoccoli che risuona nella polvere materializzando l’agognato senso di libertà che tanto abbiamo idealizzato con Alex nelle notti consumate dentro l’antibagno del bar.
Al crepuscolo, con la schiena a pezzi e senza provviste, facciamo capolino in uno dei villaggi presenti nel territorio della valle dell’Omo. Veniamo ospitati dalla tribù Karo, un popolo pacifico, radicato alle proprie tradizioni, che vive in capanne a forma di igloo costruite in legno, paglia e fango. La nostra affidabile guida ci comunica i loro usi e costumi mentre dialoga con uno degli anziani che, senza troppi convenevoli, ci conduce all’interno del villaggio.
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Ci incamminiamo lungo un’area recintata che ospita bovini e capre. Siamo presi d’assalto dai bambini che ci strattonano per i vestiti e fanno a gara per camminare al nostro fianco e tenerci la mano. Raggiungiamo un gruppo numeroso di gente radunata intorno al fuoco che sta divampando nel centro di uno slargo; presto, le fiamme saranno l’unica fonte di luce e calore. Gli abitanti del villaggio indossano dei tessuti che coprono soltanto i genitali, hanno il corpo interamente decorato con pittura bianca, gialla o rossa e portano vistose collane intrecciate su palline colorate e bracciali. Per rispettare la tradizione della tribù, Mohamed ci invita a donare un oggetto, una sorta di baratto per ricambiare l’ospitalità ricevuta. Doniamo le nostre magliette ai primi che riescono a strapparcele dalle mani e rimaniamo a dorso nudo. Una donna ci offre da bere del liquido marrone dentro ciotole di legno. Fissa insistentemente il Rosario che Ivonne porta al collo e, con curiosità e naturalezza, le tocca le cicatrici sulla schiena. Ivonne le prende la mano, sfila via la collana, e la posa sul palmo della ragazza che, sorridendo, la invita ad alzarsi per ballare intorno al fuoco.
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Le donne hanno dei segni molto evidenti sul ventre, sul petto e sulla schiena, cicatrici che si intersecano formando dei disegni inspessiti sulla pelle.
«Si chiama scarificazione!» dice Mohammed mentre fisso il corpo di una di loro «In questa tribù le donne si infliggono lacerazioni e tagli. Con la pelle ricca di cicatrici vengono considerate più mature e attraenti».
Ivonne si lascia trascinare dalla ragazza. Si tengono per mano e insieme alle altre donne formano un cerchio intorno al fuoco. Danzano. Si avvicinano alle fiamme e, restringendo il cerchio, incrociano le braccia e portano le mani sul petto abbassando il capo. Tornano indietro e, riaprendo le braccia, ruotano in un giro in tondo prima di ripartire.
Il falò accende il viso della gente con cui stiamo condividendo sorrisi e verità, mentre il suono dei djembe scandisce il ritmo di un tempo che sembra essersi fermato, o forse non è mai esistito.
Coperti da un manto di stelle che presenziano un firmamento nero, mangiamo la injera, una sorta di crepes con carne di Zebù, e fumiamo dell’erba che ci fa dimenticare chi siamo e da dove veniamo.
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A otto ore dalla destinazione, facciamo una delle ultime soste in prossimità del lago Vittoria in Uganda, lo specchio d’acqua più grande del continente da cui nasce l’affluente maggiore del Nilo: il Nilo Bianco. Un immissario che trasporta linfa vitale lungo un percorso di decine di migliaia di chilometri con l’obiettivo di aumentare la portata d’acqua del fiume più grande del pianeta.
Sveglio Ivonne e la invito a osservare lo scorcio di un territorio che non smette mai di stupirci, un lago artefice di un equilibrio che integra la natura di ogni elemento. A pochi metri dalla costa, imbarcazioni rudimentali, spinte a remi da pescatori, generano onde che trasportano gemme di luce; riflessi del sole che si infrangono sui corpi degli ippopotami che, sguazzando nell’acqua, si liberano dei volatili che stazionano sulla loro schiena. Uccelli di ogni specie attraversano il cielo cangiante e sorvolano insenature incorniciate da fitte oasi vegetali. Allungato verso il cielo, spicca il collo maculato delle giraffe che si fanno strada fra gli alberi.
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Kigali
Le corse polverose dei bambini sono un inno alla libertà ritrovata fuori dalle mura scolastiche, pareti costruite con mattoni su cui cola ancora il sangue di chi, quella libertà, non l’ha mai avuta.
Al riparo dal sole cocente, dopo aver ricercato suor Agata in due strutture scolastiche lontane un paio di ore, salutiamo le nostre guide Mohammed e Raashan che prima di congedarsi ci indicano l’ultimo edificio in cui possiamo continuare la nostra ricerca.
I ragazzini corrono scalzi e vengono a darci il benvenuto. Saltano sul cassone dell’auto, sorridono euforici e ci frugano nelle tasche. Una sorella spalanca la porta, batte le mani per richiamare l’attenzione dei minori che, senza fiatare, si battono in ritirata.
La donna trova ristoro all’ombra della tettoia, appoggia la schiena sulla colonna di cemento e tampona il sudore piazzando dei fazzoletti sotto le ascelle. Un’altra suora, china sulle ginocchia, sistema una fascia sulla testa di una bambina per tenerle a bada i capelli voluminosi come gomitoli di lana.
Mi avvicino trascinando il peso dell’emozione e non le stacco gli occhi di dosso. La donna, con una mano sulla fronte che funge da parasole, bisbiglia all’orecchio della bambina che, fulminea, raggiunge gli altri.
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