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Introduzione
Sono trascorsi sette anni dalla mia fuga. Non c’è stata notte in cui non mi sia materializzato negli oscuri meandri del pensiero per assaporare ciò che adesso è realtà. La sabbia della clessidra non è riuscita a seppellire le immagini di carne e sangue che ho continuato a contemplare e rivoluzionare, strofinando le dita sulla pittura di una tela che non si asciuga mai.
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Capitolo 4
Faccia a faccia

Roberto Puccio
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Primo giorno
Come uno scienziato con la cavia, osservo il dottore che si dimena. Il faro puntato sul viso non gli consente di vedermi ma l’odio che respira nell’aria gli permette di percepire il sentore acre in cui si cela un sentimento viscerale; abominevole. Immobilizzato sulla sedia a rotelle, stringe le palpebre per proteggere gli occhi dalla luce che gli violenta il viso. Gocce di sudore scivolano lungo le rughe marcate dall’espressione di terrore che ha assunto il volto, mentre cerca di focalizzare l’ambiente privo di identità in cui si è risvegliato. In preda a un raptus, fa balzare la sedia dal pavimento. Con le braccia tese come pezzi di legno strattona i braccioli con l’intento di liberare i polsi dal nastro adesivo. La tensione gli dipinge le guance di bordeaux. Farfuglia suoni incomprensibili, rantoli, e con un’emissione di fiato che espelle dalle narici cerca di contenere l’inquietudine. Vulnerabile, abbassa il capo, arreso.
Esco allo scoperto, sorrido. Bhauer reagisce come un demone davanti un crocifisso. L’agitazione riprende il controllo del suo corpo e trova una via di fuga attraverso un lamento stridulo e uno spasmo muscolare che finisce per ribaltare la sedia a rotelle. Faccia sul pavimento. Sangue dal naso. Lacrime. Occhi gonfi.
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Sangue e muco gli ostruiscono le narici mentre boccheggia sul nastro adesivo. Ha le gote violacee, trema. Gli occhi spalancati si proiettano nel vuoto, la testa cede al suolo, le dita delle mani abbandonano la tensione e si rannicchiano. Mi seggo al suo fianco e aspetto. Aspetto che soffochi. Voglio che muoia.
Gli strappo il nastro adesivo dalle labbra e mi allontano. Il dottore prende una boccata d’ossigeno che consente alla sua anima di riappropriarsi del corpo.
«Alex, ho bisogno che tu vada nella stanza a fare compagnia al nostro amico. È sul pavimento. Tiralo su, tappagli la bocca e assicuralo alla sedia in modo che non possa ribaltarsi ancora.
«Cazzo, mi sono perso qualcosa? Perché si trova sul pavimento?»
«Diciamo che non è molto felice di essere qui».
Alex storce il muso e mi afferra per il braccio.
«Dimmi la verità, ti sei fatto vedere in faccia? Dov’è il tuo passa montagna?»
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«L’ho tolto prima di uscire dalla stanza».
«Non raccontarmi cazzate, non ce l’avevi! Hai deciso di farlo fuori? Per questo gli hai mostrato il viso? Oppure le cose non vanno come avevi previsto nei tuoi piani?».
«Le cose vanno come devono andare a prescindere dai piani. Non era cosciente, non mi ha visto».
«Dragan, non ho mai visto quell’espressione sul tuo viso. Sei sconvolto. Sicuro di voler andare avanti? Mi dai l’impressione di uno che ha perso il focus. Perché non lo facciamo fuori subito e torniamo alla nostra vita!?»
«Non sono un assassino!» dico spingendo Alex contro il muro.
«Altrimenti gli avrei sparato un colpo in testa e, soprattutto, non avrei aspettato tutti questi anni. Le mie paure e il mio stato d’animo non sono affar tuo! Non devono preoccuparti. Fanno parte di un esperimento che devo imparare a gestire, tutto qui». Alex rimane immobile, dubbioso. Smorzo la tensione con un sorriso e poggio la fronte sulla sua. «Da questa distanza riesci a mettere a fuoco il mio sguardo? riconosci il mio viso?»
«Che domanda è? Certo che no!»
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«Ciò nonostante, conosci perfettamente cosa si cela dietro l’immagine sfocata che percepisci, quello che vedi è dentro di te. È nella tua memoria. Quando ci siamo conosciuti avevo la forza dell’incoscienza, adesso, ho quella della conoscenza, della memoria. So perfettamente quello che sto facendo. Se c’è qualcosa che ti preoccupa e non ti fidi del mio istinto, puoi tirarti fuori, ma non venirmi a dire cosa devo fare, non in questo caso».
«Sai bene che non sono uno che si tira indietro. Non abbandono la nave, piuttosto affondo con dignità» specifica spingendo la testa contro la mia. «Ho fatto un patto con me stesso e uno col diavolo! Vado io in camera da quello stronzo, tu riposati qualche ora! Ti voglio bene Drag» conclude baciandomi sulla fronte.
Alex è uno spacciatore. Lo fa in modo discreto e senza rischiare troppo. Non spaccia per arricchirsi ma per strategia. Nella sua filosofia di vita il guadagno è direttamente proporzionale al tempo libero che può permettersi. Gestisce solo clienti sicuri e affidabili, dedicando al traffico di cocaina poche ore giornaliere e guadagnando, di conseguenza, piccole somme di denaro rispetto a quelle che potrebbe intascarsi. Occasionalmente, fa da corriere a generosi quantitativi che gli concedono il lusso di vivere qualche giorno in piena libertà.
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La prima volta che uscimmo insieme, in seguito a una sorta di scambio di favori che ci indusse a risistemare la sua vecchia auto, mi chiese di accompagnarlo da un cliente. Dopo quaranta minuti di strada entrammo in un residence, ci inoltrammo nel piano interrato e posteggiammo davanti un box. Tirò fuori dal cofano un pacco nero avvolto nel cellofan con nastro d’imballaggio e grattò sulla saracinesca. Dall’altra parte aprirono lo stretto necessario per ritirare il pacco e consegnargli una busta: in sessanta secondi eravamo fuori.
“Non vale la pena rischiare in piazza: più grosso è il carico, più grosso e veloce è il guadagno! Adesso possiamo stare tranquilli per tre o quattro giorni”, disse contando davanti ai miei occhi cinquecento euro.
Quella era la sua normalità, e presto, diventò anche la mia.
Io e Alex abbiamo molto in comune, parecchi aspetti della nostra personalità viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda ma si contraddistinguono per il modo in cui li gestiamo. Siamo come due piloti che guidano la stessa auto in modo diverso. Lui è un folle ordinario, io un folle irrazionale. Lui è uno che prende le situazioni di petto e parla tanto, io prendo le situazioni di petto senza dire nulla. Lui è uno sregolato prevedibile, istintivo, io, uno che fantastica vivendo nella sregolatezza.
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Il dettaglio non trascurabile che ci ha legato fin dal primo istante l’avevamo scritto in fronte: eravamo due persone sole. E dopo un paio di albe trascorse insieme, capimmo che potevamo servirci l’uno dell’altro, uno scambio di convenienza che avrebbe semplificato la vita di entrambi. Condividere del tempo ci permise di amplificare quei tratti comuni di un carattere inusuale che divenne, anche per noi, più semplice da accettare. Insieme, affinammo peculiarità che avevano bisogno di essere poste alla luce del sole e, viceversa, accomunando le differenze che ci contraddistinguevano, riuscimmo a dare vita a un essere completo. Diventammo una cosa sola. Inscindibili, amici veri.
Il vento spinge la porta sul battente e Ivonne si ferma sull’uscio: ha due buste della spesa in mano. Con la manica della camicia tampono le gocce d’acqua piovana che le scivolano sul viso e la bacio.
«Cos’hai comprato di buono?»
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«Ti interessa veramente?»
Tiro fuori una bottiglia di prosecco dal sacchetto e la ripongo nel freezer.
«Certo, perché me lo chiedi?»
«Perché credo che sia l’esatto contrario», puntualizza precipitandosi a guardare fuori dalla finestra.
«Cos’hai? C’è qualcosa che non va?»
«Uno stronzo mi ha adocchiata al supermercato».
«Un nuovo spasimante?»
«Fuori dal negozio mi ha seguita con un’auto bianca. Mi ha tallonato per un pezzo. Rideva e sbraitava. Era ubriaco».
«È qui?»
«No! Ho cambiato strada più volte per evitare che mi seguisse ma non mi mollava. Ho dovuto fermarmi in una zona tranquilla e ho aspettato. Dopo un paio di minuti si è accostato ed è sceso dall’auto. Ho preso il cellulare e ho finto di chiamare qualcuno mentre con l’altra mano ho tirato fuori la lama del taglierino. Lo stronzo ha tentennato un attimo, si è guardato intorno e poi è andato via. Dobbiamo evitare di uscire di casa fino a che non è tutto finito».
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«Calmati adesso, non capiterà più». Provo ad abbracciarla ma Ivonne mi sfugge. A braccia conserte si stringe alla finestra.
«A volte mi spaventa guardarmi allo specchio. Per questo lo evito. Sento che il riflesso non mi appartiene. È come se alle mie spalle ci fosse un fantasma che attraversa il mio corpo e propone la sua immagine. Quando quel tizio è andato via, ho visto il mio riflesso nello specchietto retrovisore dell’auto e ho pensato che se solo si fosse avvicinato gli avrei tagliato la gola».
Ore 1.30
Seduto al tavolo della cucina, seguo l’agonia del dottor Bhauer sullo smartphone collegato alla video camera piazzata nella stanza: dopo undici ore di lamenti incessanti il medico si zittisce. Oscilla il capo.
Alex si è addormentato sul divano con la canna spenta fra le dita, mentre Ivonne finge di guardare un reality in TV: una visione prosaica della vita con cui cerca di deviare il focus saldo alla realtà.
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Ore 2.45
Accendo il faro. Bhauer gira la testa come se avesse preso uno schiaffo in pieno volto, strizza gli occhi e ricomincia a sbraitare.
«Spero che la musica sia di tuo gradimento» gli sussurro all’orecchio «ti terrà compagnia per tutta la notte!»
Avvio il lettore. Il file contiene decine di rumori assordanti che si ripetono ininterrottamente: vetri che si spaccano, urla, clacson, cani che abbaiano. Spingo su il volume ed esco dalla stanza mentre il medico mi maledice con lo sguardo.
Secondo giorno
Bhauer alterna momenti di isteria, in cui non la smette di lamentarsi agitandosi selvaggiamente con piagnistei che fanno vibrare nell’aria la debolezza d’animo di un uomo che sta provando un forte senso di impotenza, con periodi di assopimento in cui sembra essersi arreso al suo destino.
Penso a mio padre, a ciò che ha patito. Mai come adesso, il medico può rendersi conto di ciò che ha provocato nella psiche delle sue vittime.
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Ora conosce lo stato d’animo di una cavia, e molto presto saprà anche come ci si sente quando i pensieri della mente abbandonano lo stato di ribellione per lasciare che il corpo diventi uno strumento senza ragione.
Esco fuori dal fascio di luce che il proiettore spara sul viso del medico da trenta ore e mi avvicino con del pane e dell’acqua. La vittima cerca di inquadrare il mio sguardo incorniciato dal tessuto nero del passamontagna.
«Visto che rimarrai qui per tre, quattro o forse anche cinque giorni, ti ho portato qualcosa da mangiare». Il dottore annuisce mansueto. Spinge in avanti la testa, vuole comunicare. «Un uomo può sopravvivere per giorni senza cibarsi e un po’ meno senza bere. Lo sanno tutti! Ma questa, a differenza di quanto tu possa credere, non è una tortura. Per questo ti libererò la bocca offrendoti da mangiare e da bere. Ma ti avverto, se cominci a sbraitare, visto che non ho alcuna intenzione di ascoltarti, te la richiudo e sarò costretto a nutrirti con le flebo» specifico mentre gli strappo via il nastro dalla bocca.
«Chi cazzo sei!» urla. «Cosa vuoi da me?» continua, su tutte le furie, mentre gli ritappo la bocca.
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Metto via il cibo, accendo una sigaretta, tolgo il passamontagna e lascio che l’ombra mi ingoi arretrando di qualche passo dietro il faro. La brace del tabacco è un punto di riferimento per la mia cavia che ha il privilegio di assistere allo spettacolo di spettri danzanti generati dal fumo che si libera nell’aria.
«Credo che due domande possano bastare. Sai, il tempo è un dono prezioso, e dato che salterai il pranzo, i due minuti che avrei dedicato per imboccarti li spenderò per risponderti. Cominciamo dalla seconda domanda. Cosa voglio da te? Nulla di materiale ovviamente, quindi, se ci fosse ancora una parte del tuo cervello in grado di ragionare, e se questa si fosse aggrappata a un briciolo di speranza con la convinzione di potermi corrompere con del denaro, ti informo subito che stai percorrendo un vicolo cieco. Quello che voglio da te è impalpabile. Astratto. Non è una cosa che puoi donarmi ma una facoltà che voglio sottrarti. È qualcosa che tu hai tolto a molti, oserei dire, senza rendertene conto, accecato dall’efferato egoismo che depriva di ogni forma di rispetto il tuo modo di esistere in questo mondo».
Esco allo scoperto. Sono a un passo, in linea con il suo sguardo. «Voglio toglierti la ragione».
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Bhauer mi fissa immobile. Ha capito chi sono. Sopraffatto dal delirio piange disperatamente e si piscia addosso.
«Quasi dimenticavo la tua prima domanda. Vuoi sapere chi sono? Speravo che me lo chiedessi, infondo, sono anni che mi sbatto nella ricerca di una motivazione valida per rimanere nell’anonimato ma sarebbe come dedicare anima e corpo nella scrittura di un libro senza autografarlo. Mi chiamo Dragan Codermak e ti sto usando come fonte di ispirazione per scrivere la mia biografia».
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