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Introduzione
Le parole di suor Benedetta, la donna centenaria con cui mi sono confrontato fuori dalle porte del convento della Sacra Croce, hanno smorzato la fiamma della candela che avevo tenuto accesa lungo il tragitto, un obiettivo di primaria importanza: incontrare Agata. Al contempo, le affermazioni della vecchia sorella hanno tracciato un sentiero nuovo. Un tunnel di conifere, presenziato da una fitta caligine bluastra, che proietta sul suolo sagome spettrali. Ombre di un passato che non ha ancora svelato il suo volto.
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Capitolo 9
IL PURGATORIO DELLE ANIME

Roberto Puccio
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Legai la bicicletta a un palo della luce e, dopo un respiro profondo, varcai l’ingresso del Motel mirabella. Ancora lì, a cercare di capire come inserire la tessera più importante del mosaico; Ivonne.
Non appena mi vide, il signor Manfredi smorzò la tensione sorridendo alle persone con cui stava condividendo una bottiglia di Johnnie Walker messa in bella vista sopra il bancone. Con un gesto del capo, mi invitò a seguirlo dentro la sala d’aspetto.
«Ti sei deciso finalmente!» proferì allungando la mano.
«Mi sono deciso a fare cosa?»
«A venire a saldare il debito per la bicicletta che ti ha venduto mia figlia. Sinceramente credevo che non ti saresti fatto vivo. Sono duecento euro. Ivonne mi ha confessato che l’ha venduta perché avrebbe voluto farmi una sorpresa, un regalo» specifica compiaciuto.
«Mi sembra una cifra esagerata».
«Può darsi, ma non è trattabile! La prossima volta contratta il prezzo prima di appropriarti di un oggetto».
«Sono venuto anche per un altro motivo. Vorrei vedere Ivonne».
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«È molto occupata. Faresti bene a pagare il debito e andare via», disse sottovoce sorridendo alle persone che lo stavano aspettando. «Senti ragazzino» ribadì mettendomi in un angolo «ti ho già ospitato una volta e speravo di non vederti più. Ivonne non ha tempo per le stronzate, ficcatelo bene in testa e sparisci».
«Quattrocento euro dovrebbero bastare per passare un po’ di tempo con Ivonne e per saldare il debito della bici». Sfogliai le banconote e gliele allungai sotto il naso. «Oggi è il mio compleanno e voglio divertirmi».
Manfredi deglutì e, dopo un’attenta circospezione alla ricerca di una probabile fregatura, con un gesto fulmineo si intascò i soldi. Mi strinse sotto braccio ed elargì un sorriso che mantenne lungo il corridoio fino alla scala.
«Non voglio sapere da dove arriva questo denaro, ma ti avverto: se viene a cercarti qualcuno ti butto fuori a calci. Hai due ore, intesi!?»
Rivedere Ivonne era l’unica cosa che volevo. Sfiorarla, starle vicino e respirare il suo profumo. Volevo dedicarle del tempo, osservarla senza timore di essere scoperto, parlarle senza inibizioni. Volevo sapere chi fosse veramente, conoscere i suoi sogni e pesare quelle cicatrici psichiche che sfoggia con estrema naturalezza. Più di ogni altra cosa, avrei voluto capire da dove nasceva quella meravigliosa forza d’attrazione che mi spingeva prepotentemente verso di lei, un’energia che muoveva meccanismi nuovi, percezioni anonime a cui volevo dare un nome.
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Seduto sul letto, aspettai fissando la parete. Mi resi conto di aver comprato una donna per un paio d’ore e passai il tempo a chiedermi se fosse stato il modo migliore per riavvicinarmi a lei. Mescolai i punti di domanda nel calderone delle mie insicurezze fino a che sentii armeggiare da dietro la porta.
«Ho una chiave che apre tutte le serrature!» disse sorridendo. Senza convenevoli, si sedette al mio fianco e accavallò le cosce scoprendo degli anfibi troppo pesanti per le sue gambe gracili. Era bellissima. Labbra dipinte di nero e un vestitino con dei merletti. Il silenzio appesantì lo sguardo che mi appiccicò addosso e che non riuscii a sostenere senza mostrare disagio. Si alzò dal letto. Uno per uno, sfibbiò i bottoni dell’abito mettendo a nudo il torace. Tirò fuori le braccia dalle bretelle e lasciò che il vestito le scivolasse ai piedi. I capezzoli rosa davano spessore a un seno che si pronunciava appena dal costato, la pelle chiara rivestiva ossa spigolose come listelli di legno. A ogni respiro, le coste venivano fuori incavando lo sterno in un corpo privo di muscoli, marchiato da segni: cicatrici sulle braccia e sul costato. Ivonne si avvicinò leccandosi il labbro, accennò un sorriso che le alzò gli zigomi appesantiti dal trucco e con una mano sbottonò i jeans.
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Sopraffatto dall’eccitazione mi abbandonai sul letto. Sentii il suo alito sul linguine mentre mi sfilava i pantaloni. Tirò fuori il pene. Con la punta della lingua tracciò una scia umida ruotando intorno ai genitali. Mi leccò sempre più pesantemente e stringendo i testicoli lo prese in bocca.
«Aspetta… fermati!»
«Puoi venire in bocca se vuoi!»
«No, non voglio! Cioè, vorrei, ma non così, non adesso!» Ivonne abbassò lo sguardo, perplessa. «Scusami, mi hai preso alla sprovvista, non sono abituato a un confronto così diretto».
«Hai pagato. Pensavo di essere il regalo del tuo compleanno».
«In realtà non è il mio compleanno».
«Beh, cambia poco. Cosa vuoi che faccia allora?»
Mi alzo dal letto e accendo una sigaretta.
«Ne vuoi una?»
«Gli uomini di solito la fumano dopo».
«Io no. Di solito faccio al contrario. Vuoi fumare o no?»
«Non ho mai fumato».
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«Perfetto, comincia adesso!» dico mettendogli una sigaretta fra le labbra. Dopo una lunga boccata, Ivonne si fermò a fissare il fumo che lentamente si liberava nell’aria e mi porse la domanda che temevo.
«Sei vergine?»
«Non sono vergine! Il fatto è che non sono abituato ad avere un contatto fisico con persone che non conosco.
«Non ti piaccio. Hai ragione. Neanch’io mi piaccio» puntualizza guardando il suo profilo allo specchio. «Molti mi desiderano per questo. Credono che io sia malata ma in realtà lo sono loro. Parafiliaci del cazzo!»
Ivonne si riveste. La sua schiena è tempestata di segni, cicatrici sottili.
«Perché li chiami parafiliaci?»
«Chi sceglie me indossa una maschera. È un debole. Nasconde le perversioni con un matrimonio che gli serve come facciata per sembrare normale. Su di me possono esercitare un controllo maggiore che li fa godere. Colmano con il proprio ego quel vuoto scavato fino alle viscere che si portano dietro dall’infanzia. Non cercano l’aspetto estetico, ma il comando. Vogliono il mio corpo per esercitare il potere che nella vita reale non hanno. Sono dei sadici. Ecco cosa intendo».
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Ivonne getta la sigaretta dentro il water e si siede per urinare. «Lo so, tu non sei come gli altri» continuò tirando lo sciacquone. «Ma non ho capito cosa vuoi da me».
«Voglio sapere chi sei».
«Hai pagato tutti quei soldi per sapere chi sono?»
«Si. Ti sembra stupido?»
«Un po’».
«Vorrei conoscere ciò che si cela dietro il tuo sguardo, nel tuo sorriso. Quali sensazioni provocano il tuo modo singolare di relazionarti con le persone, le tue azioni. E poi vorrei sapere cosa ti piace fare». Ivonne sorride e ciondola la testa. «Ho pagato per il tuo tempo, non per il tuo corpo. Se vuoi, puoi donarmi le tue emozioni. I tuoi stati d’animo. Questo cerco».
«Cosa ci devi fare con le mie emozioni?»
«Scrivere.
Quando incontri qualcuno che riesce a stravolgere l’ordinario vuol dire che hai trovato una fonte da cui attingere. Una sorgente per trarre ispirazione. L’ho capito la prima volta che ci incontrammo, quando ti parlai del convento della Sacra Croce. Si è scatenato qualcosa dentro di te che mi ha dato l’impressione di essere molto più grande di ciò che riuscirei a immaginare. Voglio conoscerlo».
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Ivonne si guardò intorno sostenendosi alla parete, osservò la porta e la finestra come se cercasse l’uscita da un labirinto. Chiuse gli occhi, respirò a bocca aperta e corse in bagno a vomitare.
«Che ti succede?»
«Niente che non conosca» rispose tenendomi a distanza con il braccio.
«Scusami, non credevo di…»
«E cosa credevi? Che ti raccontassi la mia vita, di come mi sono ridotta in questo stato di disarmonia senza avere alcuna ripercussione? Per me è molto più semplice scopare».
Il silenzio ci seppellì e le lacrime le imbrattarono lo sguardo come gocce di acquerelli che imbarcano un foglio bianco.
«Perdonami, non ti conosco e non avrei dovuto spingermi tanto. È meglio che vada».
Mi rivestii. Sulla porta, lanciai l’ultimo sguardo a Ivonne. «Spero di rivederti».
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«Sapevo già che ne avremmo parlato», disse frenandomi sull’uscio. «Non so cosa me lo ha fatto credere né il perché. Sono quelle cose che senti dentro, che non hanno una spiegazione logica. Per questo non ho perso tempo e ho cercato subito un contatto fisico. Avevo paura di avere delle conferme, paura di rivivere ogni cosa. Quando mi hai chiesto chi sono, ho capito che non avrei potuto tirarmi indietro. Nessuno me lo aveva chiesto, mai, e sono certa che non mi ricapiterà».
Ivonne era avvolta da una nube di mistero. Fissò a lungo i ricordi che ruotavano vorticosamente nel vuoto e, stretta nelle spalle, con le palpebre che tremavano e le dita delle mani che si contorcevano, cominciò a liberarsi di immagini le avevano oscurato l’anima.
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«Quando decisi di diventare una sorellina avevo dodici anni. Mio padre non era mai in casa, partiva continuamente a causa del suo lavoro. A parte la sua presenza, non ci faceva mancare nulla. Quando tornava, mia madre lo appesantiva con scenate di gelosia, ricatti, freddezza, malcontenti che sfociavano in liti furibonde. Ciò nonostante, si amavano molto e, dopo la consueta sfuriata, facevano pace e si godevano un paio di giorni in piena serenità prima di dare il via a un altro giro di boa, un’altra partenza. Mia madre sfogava con me tutte le sue frustrazioni e, col tempo, mi convinsi di avere delle colpe: se non ci fossi stata io, lei avrebbe potuto seguirlo nelle sue trasferte ed essere una donna felice. Iniziai a sentirmi la causa del suo malessere. Trovavo una via di fuga dai sensi di colpa quando andavo a rifugiarmi in chiesa per chiedere perdono. Il parroco che mi diede la prima comunione era la persona di cui mi fidavo di più, parlare con lui mi faceva sentire in pace con me stessa e più vicina a Dio. Vista la mia predisposizione al pentimento e alla preghiera, un giorno mi parlò del percorso che avrei potuto affrontare per sposare Dio. Per mesi non pensai ad altro, mi convinsi del fatto che intraprendere quella strada sarebbe stata la scelta giusta, per me e per i miei genitori. Mi avrebbe dato la possibilità di andare via di casa e, così facendo, mio padre e mia madre avrebbero potuto riorganizzare la loro vita; questo mi rendeva felice. Dovevo ancora compiere quattordici anni quando mi portarono nel convento della Sacra Croce Slovena a più di ottocento chilometri dalla mia famiglia. Era la prima volta che mi allontanavo da casa e la prima cosa che sperimentai fu la nostalgia. Continuai gli studi, fui addestrata e, all’età di quindici anni, la madre superiora mi propose di prendere il velo bianco, un rito in cui mi sarei vestita da sposa per Gesù Cristo. Durante l’organizzazione della cerimonia fui entusiasta. A mio padre vennero richiesti dei soldi per finanziare la celebrazione e acquistare il vestito che avrei indossato. Suor Cecilia, l’unica sorella capace di usare il tombolo, per giorni dedicò tutto il suo tempo nei ricami che impreziosirono l’abito che avrei indossato. Passammo ore a chiacchierare e instaurammo un rapporto confidenziale che mi riempì il cuore di gioia, ma questa nostra complicità suscitò malcontento nella madre superiora che ci proibì, tassativamente, di rivolgerci la parola. Non riuscii a trovare una motivazione valida che giustificasse quell’imposizione finché Cecilia, lontana da occhi indiscreti, mi confidò che dell’ingente somma versata da mio padre, in realtà, ne venne utilizzata solo una piccola parte: il resto del denaro era finito nelle tasche della madre badessa. Provai rabbia e mi indispettii molto nei giorni a seguire. Superai quella delusione pensando che i soldi sarebbero stati spesi per la comunità ma, di conseguenza, cominciai a guardarmi intorno e capii che, anche lì, la mia fiducia poteva essere tradita. In tre anni vidi i miei genitori due volte. Le giornate scorrevano fra preghiere e compiti che la madre superiora ci impartiva dalle cinque del mattino. Così, dopo aver bevuto una tazza di caffè e mangiato una fetta di pane, ci occupavamo di lavare i vestiti, strofinare, ricamare, cucinare. La prima cosa che mi insegnarono fu la sofferenza. Dalla mia sofferenza avrebbero tratto vantaggio i miei familiari, sarebbero stati perdonati per tutti i loro peccati. Le famiglie delle sorelle che fanno penitenza sono salve, di questo mi convinsero. Per mostrare la mia gratitudine, per meritare di essere la sposa di Cristo, ogni venerdì facevo il percorso delle quattordici stazioni della croce in ginocchio, capii che la sofferenza fisica e quella mentale si annullano a vicenda. A diciotto anni la svolta. La madre superiora mi propose di diventare suora di clausura. Non avrei potuto più vedere nessuno, avrei vissuto nella povertà e le mura del convento avrebbero trattenuto tutta la sofferenza di cui avrebbe giovato la gente al di fuori. Mi disse che il mio era un dono di Dio, che non avrei potuto essere così egoista da tirarmi indietro. Il mio fisico e la mia mente erano predisposti a soffrire per salvare gli altri. Accettai. Non avevo idea di come vivessero le suore di clausura e cercai di vedere oltre il mio velo bianco. Avevo già sposato Dio e non potevo rifiutare un compito per il quale Cristo stesso mi aveva donato queste peculiarità. La mattina, dopo aver firmato le carte in cui dichiarai di rinunciare a qualsiasi tipo di eredità che i miei genitori mi avrebbero lasciato donando tutto alla Chiesa cattolica, mi spogliai del velo bianco e mi fecero indossare un velo da funerale color porpora: quel giorno mi segnò per sempre. Attraversammo un lungo corridoio e mi portarono innanzi una bara. Era stata costruita dalle suore con tavole di legno riciclate e tozze. Mi ci ficcarono dentro per nove ore, coperta da un drappo molto pesante che a stento faceva trapelare l’aria. Ho pianto ininterrottamente pensando ai miei genitori, sapevo che non li avrei più visti e mi chiedevo se sarei stata così forte da poter rinunciare a tutto. Ci sono stati momenti in cui sognai, altri in cui credetti di essere morta. Forse era soltanto la mia anima che usciva dal corpo per assaporare ancora la vita. Fuori dalla bara il mondo non fu più lo stesso. La suora superiora mi bucò il lobo con uno spillo e mi fece firmare con il sangue un patto d’obbedienza. Lo feci in maniera incondizionata. Rinunciai a tutto, persino a pensare. Non potevo agire se prima non mi veniva comandato. Non potevo mangiare o bere se prima non me lo indicavano loro, né sedermi o alzarmi dalla sedia. I miei occhi non potevano vedere, le mie orecchie non dovevano sentire. Non avevo il diritto di provare qualcosa, un sentimento d’amore o d’odio. Nulla mi apparteneva più, nemmeno la mia stessa vita. Ero diventata un fantoccio. Mi rasarono i capelli a zero; una suora non può permettersi il lusso di perdere tempo per la cura del proprio corpo e, come se non bastasse, presero il controllo delle lettere che ricevevo saltuariamente dai miei genitori, l’unico contatto rimasto con il mondo esterno. Prima di consegnarmele venivano lette e censurate. Parole macchiate d’inchiostro, perché avrebbero potuto risvegliare qualcosa di ciò che ero. Parole bagnate dalle lacrime, perché non riuscivo più vedere il treno che portava via ogni ricordo. Un giorno venni indirizzata dalla madre superiora ad entrare dentro una stanza. All’interno trovai un prete. Il parroco mi invitò ad avvicinarmi. Quando capii le sue intenzioni e cercai di allontanarmi, mi tirò per il braccio; era ubriaco. Nonostante la fisicità gracile dovuta alla cattiva alimentazione e alle poche ore di sonno, riuscii a opporre resistenza al prete che, al contrario, aveva un aspetto ben nutrito, ma pagai a caro prezzo la mia ribellione. “Il corpo del prete è santificato e non è peccato” diceva la madre badessa. Mi venne tolta la corrispondenza e mi portarono nei corridoi sotterranei per fare penitenza: mai nella vita mi sono sentita più lontana da Dio e più vicina a Satana. Nella stanza in cui venni condotta c’era una croce scolpita nella pietra. La superiora mi fece spogliare e mi disse di abbracciare la croce di Dio. Mi vennero legati mani e piedi in modo da non potermi distaccare dal masso. Due sorelline, comandate dalla superiora, erano armate di una frusta fatta con delle corde che sulle punte avevano dei filamenti di metallo; fui flagellata. I filamenti aprivano la pelle come rasoi, persi molto sangue e conobbi il dolore nella forma più atroce. Mi fecero indossare gli indumenti senza lavare via il sangue, i vestiti bloccarono le emorragie attaccandosi alle ferite e per tre giorni non potei toglierli. Nessuno poteva sospettare di tanta crudeltà lì dentro. I familiari che facevano visita si fermavano fuori dal cancello dietro enormi drappi neri, e le sorelline, intimorite dalla supervisione della madre superiora che le affiancava durante i colloqui, rispondevano sempre positivamente alle domande dei loro familiari. Al rientro di ogni visita la madre badessa ci faceva leccare il pavimento. Ci obbligava a tracciare delle croci per quaranta o cinquanta volte, fino a che la nostra lingua non si fosse purificata per tutto quello che avremmo voluto dire ai nostri parenti. Ogni venerdì andavamo in confessione e sapevamo già cosa ci aspettava: un confronto diretto con i preti. Loro erano forti, panciuti e il più delle volte ubriachi, noi, ridotte come delle larve, denutrite e deboli. Dovevamo inginocchiarci e ritenerci fortunate se approfittavano del nostro corpo senza usare la violenza. Il risultato di questi incontri sono delle cave in cui tutte le procreazioni indesiderate hanno avuto la loro fine. Le sorelle che si rifiutavano venivano picchiate con calci e pugni e magari avevano già in grembo un bambino formato. Persi la religione. Non credetti più in Dio, non poteva esistere. Un essere così buono, misericordioso e potente non poteva rimanere indifferente a tutte quelle sofferenze, a tutte quelle lacrime, alle preghiere che tenevano accesa la speranza nel cuore di ogni sorella, di ogni anima in pena che, ancora oggi, aspetta una carezza divina che faccia cessare quel sopruso. No. L’ho subito per sette anni e tutto continua. Sempre».
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Ivonne si zittì, in preda al tremore bevve un sorso d’acqua. Provai a domare le immagini che avevano pervaso la mia mente, scintille impazzite che accesero focolai in ogni direzione. Sensazioni indescrivibili, punti di domanda, sentimenti di rabbia, compassione, livore.
«Nell’ultima penitenza che pagai fui portata nelle segrete, la zona sotterranea del convento. La madre superiora e il prete mi trascinarono lungo un corridoio scavato nella roccia che non aveva mai visto la luce del sole. Oltrepassammo due celle occupate da sorelle moribonde, lasciate lì a morire. Nella terza cella mi legarono delle cinghie ai pollici e mi sollevarono fino a sfiorare il pavimento con le dita dei piedi. Accesero una candela e mi lasciarono lì, appesa, a sanguinare come un animale morto. L’ultima cosa che ricordo è che andarono via borbottando perché non riuscirono a chiudere la porta della celletta. Non so per quanto tempo rimasi lì, in quella sorta di purgatorio a sperimentare l’abbandono del proprio essere, so soltanto che una delle mie articolazioni si ruppe mentre ero svenuta. Mi ritrovai sul suolo, con un braccio libero e uno ancora legato. Ritrovai la sensibilità alle gambe attraverso un ratto che mi stava camminando addosso e mi solleticò la pelle. L’adrenalina allontanò il dolore e risvegliò il mio istinto di sopravvivenza. Con una mano che muovevo a stento e con i denti slegai l’altra cinghia, mi trascinai fuori dalla cella e attraversai lo spessore più profondo dell’oscurità. Alla fine del cunicolo, una scala di pietra proiettò il mio sguardo in superficie verso una porta contornata di luce. Valicai i gradini come fossero rocce insormontabili e spinsi sulla maniglia di ferro con tutto il peso del corpo; la porta era chiusa. Sconfitta, mi abbandonai sui gradini e aspettai la fine. Sapevo perfettamente che avrei pagato con la vita la mia disubbidienza, ma sapevo anche che era l’unico modo per porre fine alle mie sofferenze. Un colpo di bastone ritemprò il mio corpo. La madre superiora mi afferrò per un piede e, imprecando come un diavolo che trascina negli inferi le anime dannate, mi tirò giù lasciando che il mio corpo seminudo si sfregiasse sui gradini ruvidi e taglienti. Fu in quel momento che conobbi Satana. Accecata dalla rabbia, rinnegai Dio e con un sospiro profondo permisi all’anima dannata, padrona di quel luogo sconsacrato, di impossessarsi del mio corpo. Lo sentii scorrere nelle vene come un fiume impetuoso di collera. Con una furia che non avevo mai conosciuto, cominciai a dimenarmi e a sferrare calci all’impazzata. Madre badessa mi afferrò per il collo e cercò di strangolarmi. Mi avvinghiai al suo corpo e mi lanciai giù per le scale. Capitombolammo per tutta la gradinata strette nell’abbraccio della morte e la sua testa mi fece da scudo sullo spigolo di un gradino. Un alone di sangue contornò il suo capo; l’avevo uccisa. Rovistai nelle sue tasche e mi impossessai del mazzo di chiavi che portava sempre con sé. Tornai su e, dopo un’infinità di tentativi, il portoncino si aprì. I raggi del sole attraversarono il mio corpo come lame di luce per liberarmi dai demoni che tenevano in ostaggio la mia anima. Non percepii più dolore né la fatica e cominciai a correre senza voltarmi indietro». Nell’ultima penitenza che pagai fui portata nelle segrete, la zona sotterranea del convento. La madre superiora e il prete mi trascinarono lungo un corridoio scavato nella roccia che non aveva mai visto la luce del sole. Oltrepassammo due celle occupate da sorelle moribonde, lasciate lì a morire. Nella terza cella, mi legarono delle cinghie ai pollici e mi sollevarono fino a sfiorare il pavimento con le dita dei piedi. Accesero una candela e mi lasciarono lì, appesa, a sanguinare come un animale morto. L’ultima cosa che ricordo è che andarono via borbottando perché la porta della celletta non si chiuse. Non so per quanto tempo rimasi lì, in quella sorta di purgatorio a sperimentare l’abbandono del proprio essere, so soltanto che una delle mie articolazioni si era rotta mentre ero svenuta. Mi ritrovai sul suolo, con un braccio libero e uno ancora legato. Ritrovai la sensibilità alle gambe attraverso un ratto che mi stava camminando addosso e mi solleticò la pelle. L’adrenalina allontanò il dolore e risvegliò il mio istinto di sopravvivenza. Con una mano che muovevo a stento e con i denti slegai l’altra cinghia, attraversai lo spessore più profondo dell’oscurità e, alla fine del cunicolo, una scala di pietra proiettò il mio sguardo in superficie verso una porta contornata di luce. Valicai i gradini come fossero rocce insormontabili e spinsi sulla maniglia di ferro con tutto il peso del corpo; la porta era chiusa. Sconfitta, mi abbandonai sui gradini e aspettai la fine. Sapevo perfettamente che disubbidire alla madre superiora cercando di scappare mi sarebbe costata la vita, l’unico modo per porre fine alle mie sofferenze. Un colpo di bastone ritemprò il mio corpo. La madre superiora mi afferrò per un piede e, imprecando come un diavolo che trascina negli inferi le anime dannate, mi tirò giù lasciando che il mio corpo semi nudo si sfregiasse sui gradini ruvidi e taglienti. Fu in quel momento che conobbi satana. Accecata dalla rabbia, rinnegai Dio e con un sospiro profondo permisi all’anima dannata, padrona di quel luogo sconsacrato, di impossessarsi del mio corpo. Lo sentii scorrere nelle vene come un fiume impetuoso di collera. Con una furia che non avevo mai conosciuto, cominciai a dimenarmi e a sferrare calci all’impazzata. Madre Badessa mi afferrò per il collo e cercò di strangolarmi. Mi avvinghiai al suo corpo e mi lanciai giù per le scale. Capitombolammo per tutta la gradinata strette nell’abbraccio della morte e la sua testa mi fece da scudo sullo spigolo di un gradino. Un alone di sangue contornò il suo capo; l’avevo uccisa. Rovistai nelle sue tasche e mi impossessai del mazzo di chiavi che portava sempre con sé. Tornai su e dopo un’infinità di tentativi il portoncino si aprì. I raggi del sole attraversarono il mio corpo come lame di luce per liberarmi dai demoni che tenevano in ostaggio la mia anima. Non percepii più dolore né la fatica e cominciai a correre senza voltarmi indietro».
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La storia di Ivonne era senza precedenti. Aveva vissuto qualcosa che andava al di là dell’immaginazione. Mi resi conto di quanto fossi stato stupido a credere di aver capito cosa poteva essere giusto per lei, e quanto fosse stata superficiale l’idea che mi ero fatto sul suo vissuto. La ragazza fragile come un fuscello che avevo davanti agli occhi era sopravvissuta a una prova che avrebbe messo in croce chiunque.
«Come sei arrivata fin qui?
«Nella mia mente c’è un buco nero, un arco temporale privo di immagini. Mi sono risvegliata con gli occhi di Manfredi puntati addosso, mi guardava come se avesse visto resuscitare un morto. Mi aveva trovata distesa sul ciglio di una strada di campagna, priva di sensi. Mi portò qui e chiamò un medico di fiducia che venne tempestivamente a visitarmi. Nonostante fossi sottopeso e presentassi vari segni di escoriazione e lividi cutanei, stavo bene; avevo solo un’infezione che doveva essere curata con degli antibiotici. Rimasi a letto per ventiquattro ore. Anche quando mi sentii meglio, finsi di continuare a dormire e mi presi il tempo necessario per decidere cosa fare. Non avevo documenti addosso, non avevo parenti o amici che mi cercassero, non ero nessuno. Gli raccontai di non avere una famiglia, né un posto dove vivere. Esclusi a priori la possibilità di tornare a casa dai miei genitori, mi vergognavo, non avrei mai avuto il coraggio di raccontargli il vissuto fatto di soprusi dentro il convento. Mai gli avrei dato questo dolore, e mai sarei voluta tornare ad essere un intralcio nella loro vita di coppia. È stato molto più semplice lasciare che continuassero a credere di avere una figlia felice che vive nella completa dedizione a Dio. Rimasi qui. All’inizio Manfredi era titubante, pochi giorni dopo, condizionato dalla salute precaria di sua moglie e limitato dai problemi economici con cui mandava avanti la gestione del Motel, mi concesse di occuparmi della pulizia delle camere in cambio di vitto e alloggio. Nei giorni a seguire, lo stato di salute della moglie peggiorò, fu ricoverata in ospedale e nel giro di due mesi morì. Manfredi aveva accumulato parecchi debiti e a stento riuscì a organizzare un funerale decente alla moglie. Cercò in ogni modo di far quadrare i conti, ma non poteva permettersi di assumere personale, tanto che mi ritrovai a occuparmi di ogni cosa: pulizie, cucina, servizio ai tavoli. Per me non era un sacrificio, ero abituata a molto peggio, ma nonostante il contributo il Motel era destinato a chiudere. Un giorno entrò un cliente in stanza mentre facevo le pulizie. Non era uno qualunque, ma il direttore di un’agenzia di prestiti, un amico di famiglia di Manfredi che era venuto appositamente per constatare la situazione e capire quale cifra avrebbe potuto rimettere in piedi l’economia dell’attività. La sera prima gli avevo servito la cena e lui non mi aveva scrollato un attimo gli occhi di dosso. Quando lo ritrovai in camera, capii subito le sue intenzioni: chiuse la porta, si avvicinò e iniziò a spogliarmi. Lo lasciai fare, non perché avessi voglia di lui, ma perché mi sentii in colpa per averlo osservato; questo mi avevano insegnato in convento. Mi ritenni la causa scatenante della sua azione e credetti che la mia disponibilità facesse parte della condizione ideale per avere il suo aiuto. Quando si rivestì, prima di uscire dalla stanza lasciò dei soldi sul comodino e mi disse che sarebbe tornato presto. Consegnai la somma a Manfredi e la giustificai come un regalo. Lui sapeva e fece finta di niente. In convento mi avevano insegnato il disprezzo per il proprio corpo, la noncuranza di se stessi, e questo mi facilitò il compito che avevo appena assunto: avrei fatto qualsiasi cosa per salvare le sorti di questo posto, era diventato il mio rifugio ed io avevo troppa paura del mondo. Tornare a vivere allo scoperto mi terrorizzava più di qualsiasi altra cosa. Manfredi ottenne il prestito che voleva, si limitò a sanare i debiti e tutto rimase com’era. Mi ringraziò dicendomi che questa era la mia casa, che mi avrebbe trattata come la figlia che non aveva mai avuto e che nessuno avrebbe osato dire il contrario. Il destino mi aveva assegnato un altro luogo per continuare la mia punizione, la mia clausura.
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«Vieni via con me…»
«Cosa?»
«Hai capito bene!» Ivonne storse le labbra. «La prima volta che ci siamo incontrati mi hai detto che avevi un desiderio: tornare a pedalare con la tua bicicletta. Se rimani qui non lo farai mai. Vieni via con me».
«Credi davvero che abbia bisogno del tuo aiuto per andare via da questo posto? Se avessi voluto lo avrei già fatto. E poi, cosa c’è la fuori? La salvezza?»
«C’è la libertà!
Hai vissuto nell’ombra per tutto questo tempo, dentro e fuori dal convento, adesso è arrivato il momento di venire allo scoperto. Non essere liberi è come non essere vivi. Vivere è libertà». Ivonne abbassò lo sguardo e scosse la testa. «In questo telefono c’è una sim che ho appena attivato con un numero che non conosce nessuno a parte me» dissi poggiando sul letto il cellulare che mi aveva procurato Alex. «Ti contatterò con dei messaggi per farti sapere quando verrò a prenderti. Dammi un paio di giorni per organizzarmi».
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«Se liberi un animale cresciuto in gabbia lo condanni a morte. Lo sai questo?».
«Se lo abbandoni al suo destino. Tu non sarai sola. E un giorno faremo insieme un giro in bicicletta! È una promessa».
«Tu non hai idea di come funzioni il mondo. Parli di libertà. Credi di sapere cos’è giusto per gli altri? La libertà è nella nostra testa, e io, ovunque vada, avrò sempre con me i miei fantasmi. Ti prego, non fare promesse se non sei sicuro di poterle mantenere».
Forse hai ragione. Non posso sapere quale sia la soluzione migliore per il tuo futuro. So soltanto di non avere alternative, perché quando sorridi sento una stretta allo stomaco che mi fa amare la vita, quando ti vedo soffrire vorrei che il tuo dolore fosse mio, quando ti guardo negli occhi ho la sensazione di essermi perso in un altro mondo, quello in cui voglio vivere.
La baciai. Ivonne spalancò gli occhi e rimase immobile, sorpresa. Inumidii le labbra e la baciai ancora, con delicatezza, nel buio. Riaprii gli occhi e mi ritrovai dentro i suoi, spalancati, profondi e verdi.
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La manipolazione dell’anima

Roberto Puccio
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«Ci riprovo ancora», sussurrai sorridendo. Un altro bacio, pesante, marcato da un respiro profondo. Le tenni il viso ancorato al mio. Assaporavo il rossetto e lei non smetteva di fissarmi.
«Se avessi chiuso gli occhi anche tu, ti avrei baciato meglio», azzardai con un velo di imbarazzo.
«Perché dovrei chiuderli? Io non ho mai baciato nessuno, sono gli altri a farlo. Ma una cosa voglio dirtela» confessò, leccando una lacrima sull’angolo della bocca. «Non avrei mai creduto che, con un bacio, si potesse capire tanto di una persona».
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