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Introduzione
Le acque del Nilo tagliano il deserto e scorrono per 6852 kilometri. Attraversano il Burundi, la Ruanda, la Tanzania, l’Uganda, il Sudan, l’Egitto e sfociano nel mediterraneo con un estuario largo duecentoquaranta kilometri. Un fiume imponente. Maestoso. Fonte di vita. Grazie all’apporto dei suoi più grandi affluenti, il Nilo bianco e il Nilo azzurro, tre mila metri cubi d’acqua si muovono ogni secondo fra argini che delimitano l’alveo fino alla foce. Il suo percorso è tracciato, scritto. Com’è scritto il cammino di ogni individuo che spende il tempo di un’esistenza dall’epilogo certo muovendosi fra argini immaginari. Una vita condizionata dai pensieri. Arricchita da tributari che, lungo il cammino, possono migliorarne le sorti o sgretolarne ogni certezza. Affluenti in grado di far tracimare lo spirito come un fiume in piena che irrompe gli argini e dà luogo a catastrofi.
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Capitolo 2
LA STANZA
Roberto Puccio
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Sono anni che aspetto questo momento. L’attesa è stata una compagna fedele, una parentesi temporale in cui ho custodito e alimentato il rancore in funzione di ciò che sta per accadere adesso.
Apro il quaderno sulle ginocchia e annuso l’aria. Respiro la tensione. Premedito il momento in cui le luci di casa si spegneranno e la preda sarà fuori dalla tana. Nuda. Indifesa.
«Dragan, si può sapere cosa stai leggendo?»
«Appunti di mio padre».
«Certo, chiaro! Un’altra cosa, visto che non riesco a stare fermo dentro questa cazzo di macchina, mi spieghi cosa stiamo aspettando?»
Fisso Alex dallo specchietto retrovisore e cerco di mantenere la calma.
«Aspettiamo che esca».
«Cazzo Drag!» urla in preda al craving scalciando sullo schienale del sedile «È la terza volta che veniamo qui, tutti e tre, ad aspettare. Sai che c’è? Odio aspettare! Oltretutto, sta cominciando a piovere e il mio umore finisce sotto i piedi. Prima o poi qualcuno noterà la nostra auto. Vuoi rovinare tutto?» finisce grattandosi la testa.
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Ivonne è seduta al mio fianco. In pace con se stessa, osserva la scia che le gocce d’acqua descrivono sul parabrezza. Le accarezzo il viso e con un cenno le indico il vano porta oggetti. Sorride, serafica. La freddezza con cui gestisce le emozioni, anche in situazioni ansiogene come questa, è disarmante. Non esiste una donna imperturbabile come lei. Abbiamo trascorso insieme ogni giorno negli ultimi sette anni, e ogni volta che ha messo a nudo qualcosa del suo carattere ho ricercato, invano, parole in grado di spiegare il suo modo di essere. La sua mentalità, libera da ogni archetipo, è fine a se stessa. Il suo spirito fluisce come un fiume senza alveo.
Ivonne tira fuori la busta, pesta i granuli con una lametta e apparecchia tre strisce di coca sullo specchietto del porta trucco, dopodiché, si rivolge ad Alex come una madre farebbe difronte i capricci incessanti del figlio.
«Sta tranquillo» dice porgendogli la cannula. «lasciamo che sia lui a decidere quando è arrivato il momento». Alex sfrega le mani, tira su la riga e si quieta con un respiro profondo. Tocca a me. Una botta di adrenalina mi esplode nel cranio. Deglutisco. Sono carico.
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L’amaro della sostanza scende in gola, affianca un cuore vigoroso che spinge sulle coste come un detenuto sulle sbarre. Muscoli contratti. Impulsi involontari. Scrocchio le dita, sgranchisco il collo e stringo i pugni, assecondo un organismo esagitato, stimolato da scosse cerebrali che ricercano spazio di movimento. Azione.
Il dottor Bhauer è fuori. Il borsalino gli protegge il viso dalla pioggia mentre assicura le mandate alla porta. Sereno, respira l’umidità della sera e si guarda intorno compiaciuto. Si muove dentro un quadro che ha dipinto con il sangue dei suoi pazienti, un contesto sfarzoso, gratificante, costruito sulle basi di un egoismo maligno. Trascina il trolley calpestando il prato all’inglese e aziona l’apertura centralizzata dell’auto lucida e nera. Ripone la valigia nel bagagliaio e, in un tonfo, richiude il portellone su cui si riflettono, sfocate come presenze, le sagome degli alberi circostanti e le luci del vialetto. Con accuratezza, sfila via il cappotto, toglie i pelucchi e lo ripone sull’appendi abiti collocato dietro il poggiatesta.
Sono a un passo. Attraverso il passamontagna respiro il profumo dolce e nauseante dell’uomo che mi ha permesso di conoscere l’odio. Lo ha seminato dentro di me senza attenzione, e io, con estrema cura, ne ho nutrito il germoglio attraverso pensieri ostili, desiderio di riscatto, promesse.
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Bhauer è immobile. Il riflesso sul finestrino dell’auto gli consente di vedere la mia sagoma contorta di luci e ombre. Spinge lo sguardo lateralmente ma la paura lo tiene avvinghiato, non gli consente di muoversi.
«Salve dottore» dico mentre mi scoppiano in testa le urla di mia sorella che piange sul seggiolone. «Non le nascondo che ho il cuore esagitato per l’emozione; dopo tutti questi anni…» Bhauer accenna un movimento del capo e smette di respirare. «No, la prego, non si giri. Se capisse chi sono manderebbe allo sfascio piani costati anni di sacrificio e dedizione. Sarei costretto a ucciderla, e io non sono un assassino, o almeno, non lo sono stato finora».
Il medico agguanta la maniglia dello sportello e prova a catapultarsi dentro l’auto. Alex lo afferra per la giacca e lo trascina fuori. Pugni sul viso e allo stomaco. Bloccato a ridosso dello sportello che si contorce, gli serro la bocca piantandogli la siringa sul collo. Come un ossesso, con l’ago pendulo nelle carni, ci strattona violentemente per divincolarsi cercando di urlare. La saliva fluisce lungo le mie dita, la mandibola allenta la tensione e il corpo vacilla.
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Ho la Nausea. Ideosincrasia. Rivedo mio padre, esanime, seduto sulla sedia con lo sguardo nel vuoto. Bernadette che si chiude la porta alle spalle e conta il denaro che le ha consegnato il medico. Le urla di Sofia.
Con gli occhi sepolti dagli zigomi gonfi, il dottor Bhauer scivola sullo sportello intriso di cera e si abbandona al suolo.
Alex e Ivonne rientrano sottobraccio.
«La casa dello stronzo è in ordine e la macchina è sistemata» specifica Alex mordendo una mela. «Ho piazzato una telecamera sul viale d’ingresso per monitorare eventuali visite inaspettate, e una sul pianerottolo della scala per avere sotto controllo l’intera prospettiva del pianoterra. L’auto non esiste più, l’ho consegnata in officina a Carmelo. Mi ha assicurato che non rimarrà nemmeno l’ombra del pezzo più piccolo nella parte più nascosta. Dragan, possiamo stare tranquilli» conclude stringendo Ivonne dai fianchi che, sogghignando, gli sfugge strappandogli via la mela dalla bocca.
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Disteso sul divano, il dottore dormirà per diverse ore. Adesso che si sono invertiti i ruoli, e impugno crocera e fili per gestire i suoi movimenti, non riesco a fissarlo per più di una manciata di secondi senza sentirmi succube della sua presenza, plagiato da una realtà che, per anni, è stata solo frutto di ipotesi e immaginazione.
«Avete incrociato altra gente? Visto qualcuno?» Il sospiro di Ivonne dietro l’orecchio genera un brivido che si ripercuote lungo la schiena.
«No. Nessuno. Vieni su con noi?» finisce mordendomi il lobo.
«Lo sai che non ce la farei senza di te» confesso raggirando la sua richiesta.
«Lo so. Vieni?»
«Preferisco rimanere qui a sorvegliare il nostro ospite. Perdonami, vorrei essere cinico e spregiudicato ma non ce la faccio. Non ancora».
«Non desiderare di essere ciò che non sei! Hai solo bisogno di tempo. È lecito».
«Eccoti figlio di una grandissima puttana» dice Alex esalando il fumo della canna sul viso del dottor Bhauer. «Fra un paio d’ore, non appena si sveglia, che si fa?»
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«Ogni cosa a suo tempo».
Tiro fuori carta e penna e butto giù dei pensieri.
«Scrivi? Riesci a farlo guardando questo pezzo di merda? Ti conosco da anni e ancora non capisco quando scherzi e quando fai seriamente».
«Non sono io a decidere quando è il momento di scrivere. Lo faccio e basta».
«Ho capito, fai seriamente! Ti lasciamo solo. Se l’animale si sveglia fa un fischio, noi andiamo di sopra a ottimizzare il nostro tempo» dice ancorando Ivonne per il braccio.
«Aspetta un attimo… Hai procurato la sedia che ti avevo chiesto?»
«Parli della sedia a rotelle? È nel box».
«Perfetto!»
«Capisco che vuoi sorprendermi con inaspettati colpi di scena e che, come da accordi presi, non devo farti domande in merito, ma almeno una curiosità potresti togliermela? A che cazzo ti serve una sedia a rotelle con il WC incorporato?»
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Bacio Alex sulla fronte e gli sfilo la canna dalle mani.
«Lo scoprirai quando sarà il momento!
«Dai, vieni su con noi» ripropone la donna che amo mentre Alex la prende in braccio e si avvia per le scale.
«No. Non è il momento!»
«Per quanto tempo non sarà il momento?» urla sulla porta che sbatte.
Per tutto il tempo necessario.
Io e Alex amiamo Ivonne. Ci prendiamo cura di lei come se fosse una sorella, l’ascoltiamo come se fosse nostra madre, la desideriamo come si desidera la donna degli altri.
Non avrei mai immaginato che un giorno sarei riuscito a condividere l’amore per una donna con un altro uomo ma è pur vero che non l’avevo escluso. È capitato. Come capita di innamorarsi, di ammalarsi, di nascere o morire. È stato molto più semplice accettare questa condizione fuori dall’ordinario piuttosto che farsi trascinare dentro retaggi culturali circoscritti da moralità che ti serrano come filo spinato.
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Il sentimento che proviamo per la stessa donna non ha mai scaturito competizione, niente scenate di gelosia o prese di posizione; soltanto amore. Quando parliamo di lei, quando riusciamo a esternare le nostre sensazioni, entrando nell’intimo della nostra relazione a tre, ci rendiamo conto di vivere esattamente nella stessa condizione: l’amiamo e basta, coscienti del fatto che non potremmo fare diversamente, non con Ivonne. È una donna che non si perde nei ragionamenti e non riesce a esternare sentimenti a parole. Non la puoi vincolare in alcun modo. Non programma, non sceglie. Ti dà tutto o niente e se prende una decisione non torna indietro. Ama, fa sesso, parla, sta zitta, piange e sorride con la stessa naturalezza con cui respira.
Ivonne siede al mio fianco, mi abbraccia. Ha una tazza fumante fra le mani, un odore inconfondibile: infuso di finocchio e cannella, il suo preferito.
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Respiro l’aroma mentre mi avvolge con il plaid.
«Riesci a scrivere veramente?»
«Si, ed è proprio come credevo che fosse».
«Pensavo che questa situazione potesse condizionare le tue idee e bloccarti, mi sorprendo nel vederti concentrato, con lo sguardo a fuoco. Come ti senti?»
«Come un pianista».
«Continua…»
«Un pianista non pensa a schiacciare con intenzione ogni singolo tasto del pianoforte, lo fa in maniera intuitiva, guidato dalla memoria in cui è impresso tutto il suo sapere. Attraverso la memoria acustica percepisce l’altezza dei suoni e con quella cinetica ha memorizzato la posizione delle mani e i movimenti che i muscoli devono fare durante l’esecuzione. Ecco come mi sento quando scrivo. Devo solo trovare i termini giusti per mantenere il peso del concetto, per non sminuire l’importanza del contenuto. Parole messe in riga che scorrono armoniose come note di una sinfonia al pianoforte».
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«È come un foglio bianco già scritto».
«Amo quando citi le parole di mio padre».
«Vorrei conoscerlo».
«Capiterà».
«Conosco i suoi più intimi pensieri ma non l’ho mai visto. E quando ascolto le tue parole riesco a immaginarlo. Avete molto in comune».
«Non ci vediamo da sette anni. Mi sento come se lo avessi abbandonato. Non so che fine ha fatto. Potrebbe anche essere morto. E pensare che, adesso, mi trovo a pochi kilometri da casa».
«Sei andato via per salvarti, ed è stato lui a volerlo. Lo conoscerò quando sarà il momento. Andrà così!»
«Lo credo anch’io. È per lui che ho maturato questo disegno. Adesso dobbiamo muoverci, prima che il nostro amico si svegli. Spero solo che nessuno interrompa quello che abbiamo appena iniziato, qualcuno che possa indagare sulla sua scomparsa.
«Il dottor Bhauer è un uomo solo» dice Alex mentre abbottona i jeans. «Non ha nessuno. Non ha figli, né moglie. Solo una sorella che vive in Australia e una donna delle pulizie che in concomitanza con la sua partenza si è concessa una settimana di ferie».
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«Se è così possiamo stare tranquilli!»
«Dragan, è così! Suo padre è morto il 24 aprile dell’anno scorso, sua madre, quasi novantenne, è ricoverata in un ospizio da prima che morisse il marito. L’unica persona con cui ha contatti frequenti è un certo Gregorio Sandovalli, un assicuratore pseudo amico con cui, a mio avviso, si spartiscono compiti e affari altamente remunerativi di cui, ahimè, conosciamo perfettamente l’entità. Si sentono principalmente su WhatsApp o tramite sms e, molto raramente, hanno condiviso delle uscite. L’ultima volta che si sono visti di presenza risale a circa tre mesi fa in occasione di un’apericena. La vita di Bhauer ruota intorno al turismo sessuale, alle prostitute e alle truffe. Vive da un paio di anni nella villa in cui lo abbiamo prelevato e, fortunatamente, non ha nessun legame con la gente del vicinato; diciamo che il dottore è uno che seleziona le persone con cui passa il tempo». Alex afferra il pollice del medico e sblocca lo schermo dello Smartphone. «Ovviamente ho spulciato il suo telefono da cima a fondo, è stato divertente: registro chiamate, messaggi, foto, video, Facebook, Instagram».
«Ottimo lavoro, adesso aiutami a portarlo nella sua stanza».
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«Aspetta, c’è dell’altro! I social network svelano molte più cose, e in poco tempo, rispetto a quante ne avrebbero potuto rivelare mesi di investigazioni private con tanto di pedinamenti e telefono sotto controllo. Sono uno specchio della vita, messo alla mercè di qualunque sconosciuto, e per di più, in continuo aggiornamento. Non solo, ti ricordano avvenimenti passati buttati nel dimenticatoio! Guardate qui… Nel 2016 il nostro amico parte in vacanza per la Romania; che belle foto. Che colori vivaci! Facebook gli ha appena proposto di ripubblicare questo ricordo. Cosa volete che ci sia andato a fare in Romania un uomo di cinquantanove anni, solo e senza alcun legame con le persone del luogo? Non c’è un’amicizia rintracciabile attraverso una telefonata, un messaggio o una chat. Tre mesi dopo è andato ad Acapulco. Poi, Fortaleza. Tutte mete che il 70% degli italiani sceglie per il basso costo della vita, e non di certo per documentare gli scenari mozzafiato che offre la natura. Vanno lì per togliersi qualche sfizio con prostitute, nella maggior parte dei casi ragazzine che fanno sesso per pochi spiccioli in un contesto in cui la prostituzione fa parte della normalità ed è l’unica fonte di sopravvivenza per le famiglie».
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Ivonne corre in bagno. Vomita.
«Sei un coglione! Perché dispensare certe notizie? Ti comporti come se non la conoscessi. Che cazzo ti passa per la testa!?»
«Non credevo che la prendesse così, pensavo che gli avessi parlato del pezzo di merda che ci siamo messi in casa».
«Se lo avessi fatto non avrebbe acconsentito! E comunque, non puoi spiattellare tutto in questo modo. Che reazione ti aspettavi?»
«Hai ragione, scusa! Sono strafatto e parlo a ruota libera. Sai come mi prende! Vorrei ragionare ma non riesco a esaminare i pensieri prima di esporli».
«La prossima volta cerca di riuscirci. Adesso spostiamo Bhauer da qui, è arrivato il momento. Posizioniamolo sulla carrozzina e portiamolo nel box».
Alex sbarra gli occhi e alza le mani. Ivonne scarrella la pistola e la punta sul cranio del medico.
«Non lo voglio in casa» bisbiglia.
«Ivonne, guardami».
«Non lo voglio!» ribadisce.
«Cazzo, Ivonne! Abbassa quella pistola!» urla Alex.
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«Posa l’arma e lascia che ti spieghi, ti prego…» dico ponendomi sulla traiettoria della canna. «Il dottor Bhauer è entrato in casa mia quando avevo quattordici anni. Dopo la prima visita ha proposto a mia madre di richiedere l’assistenza domiciliare. Avrebbe dovuto occuparsi di mio padre, aiutarlo a guarire, e invece non ha fatto altro che somministrargli farmaci che lo hanno reso inerme. Ha convinto Bernadette a stipulare una polizza assicurativa sulla vita, dopodiché, lo ha condannato a morte. Questo è quello che fa il dottore per permettersi la villa splendida in cui vive, gli abiti firmati e i viaggi. Chissà quante altre persone hanno contribuito, con la loro disperazione, a riempirgli il portafogli. Come se non bastasse, dopo aver condotto mia madre alla disperazione se l’è portata a letto. Io ero lì, a far finta di non capire. Lottavo con me stesso rifiutandomi di credere a quello che vedevo e sentivo. Per anni ho immagazzinato odio che un giorno gli avrei restituito. Quel giorno è arrivato. Deve patire lo stesso dolore. Se lo uccidi lo salvi».
«Non voglio vederlo. Portalo via da qui» conclude consegnandomi la pistola.
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Nudo sulla sedia a rotelle, lo portiamo dentro il box. Con il nastro da imballaggio gli lego i polsi ai braccioli, le caviglie al telaio e il capo al cuscino poggiatesta. Coperto con un lenzuolo su cui pratichiamo un foro per tenergli fuori la testa, lo posizioniamo al centro della stanza.
«Cristo santo!» esclama Alex «Non so cos’hai in mente ma non vorrei essere al suo posto».
«Dov’è il materiale che ti avevo chiesto?»
«Et voilà!» risponde trascinando uno scatolone ai miei piedi.
«Qui c’è tutto l’occorrente: pannelli in poliuretano espanso, colla e pennelli, una cassa acustica con lettore mp3, un prolungo, doppie prese e un faretto da 100 watt con piedistallo. Mi sembra che non manchi nulla. Inoltre, mi sono preso la briga di procurare una micro camera con cui possiamo tenere sotto controllo la stanza direttamente dal cellulare».
«Bene! Prepariamo la stanza».
Spargiamo la colla lungo la superficie delle due pareti che confinano con l’esterno e applichiamo i pannelli di poliuretano per rendere l’ambiente insonorizzato. A due metri di distanza dal medico, piazziamo il faretto in direzione del viso mentre, alle sue spalle, colleghiamo la cassa acustica con il lettore e una chiavetta USB che contiene tracce audio preventivamente selezionate.
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Il medico muove la testa, stende le dita, strizza le palpebre.
Alex gli sigilla la bocca con un giro di nastro adesivo, spegne la luce e mi raggiunge dietro il faro.
«Sai che ti sono debitore e che puoi contare su di me?» dice eccitato passandomi una sigaretta.
«Si, lo so».
«Lo sai che puoi chiedermi qualsiasi favore senza darmi alcuna spiegazione?»
«Si, so anche questo. Allora?»
«Cos’hai in mente? Qual è il prossimo passo?» chiede indicandomi il dottore che ha appena aperto gli occhi. «Non credi sia arrivato il momento di spiegarmelo?»
Accendo il faro sul viso di Bhauer. Accecato, si dimena nella speranza di tirarsi fuori dall’incubo in cui si è svegliato. Le urla trattenute dal nastro da imballaggio gli si ripercuotono sul viso che assume l’espressione dell’angoscia. L’inquietudine inizia a divorarlo da dentro.
«È arrivato il momento di sfinire l’aquila».
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