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Introduzione

“Addio Mamma”

Due parole. Non riuscii a scriverle altro prima di andare. Non la odiavo, né l’avevo condannata, semplicemente non riconoscevo più il suo volto. La sua immagine era stata oscurata da nuvole di carbone, guardiani incorruttibili che non hanno lasciato trapelare luce utile a rammentare i ricordi di un’infanzia messa al patibolo. Ha sofferto anche lei e, stanca di combattere, ha lasciato che il male entrasse in casa nostra per semplificarle la vita. Si è lasciata raggirare, convincere. Vittima di un mercante di anime che ha ottenuto la sua a basso costo.

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Capitolo 3

SFINIRE UN’AQUILA

Roberto Puccio
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Ci vollero tre mesi per metabolizzare il messaggio di mio padre, novanta giorni di agonia vissuti sull’orlo di un baratro alla ricerca del coraggio necessario per scappare.

Infilai nello zaino pochi capi di abbigliamento, una bottiglia d’acqua, lo smartphone, le cuffie e delle penne. Due quaderni per i miei appunti e un vecchio taccuino carico di pensieri, quelli che avevano scavato nell’animo di un uomo ancora capace di meravigliarsi.

Mi specchiai sulla lama del coltello che riposi nello zaino e dalla borsa di Bernadette, posta sull’attaccapanni, sfilai un pacchetto di sigarette e un accendino. Strette in un elastico, nascosi le banconote dentro le mutande.

In punta di piedi, sull’uscio della stanza da letto di mia madre, ascoltai il respiro di Sofia che dormiva; sereno, inconsapevole. Un giorno verrò a prenderti.

Le ombre della notte mi accompagnarono lungo le scale fino alla porta d’ingresso e la foto di famiglia che ci ritraeva complici e sorridenti fu l’ultima immagine che osservai prima di varcare la soglia.

Quattro del mattino. Le luci sulla strada erano spente e il buio aveva divorato ogni cosa.
   

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Nonostante fosse entrata la stagione primaverile, l’aria gelida che sostentava il ghiaccio sui bordi del marciapiede mi spinse a tenere un passo spedito per scaldare le gambe che non smettevano di tremare. Con il cappuccio sulla testa, attraversai il corso principale in procinto di deviare su una strada secondaria che mi avrebbe evitato di incontrare facce indiscrete. Sfilai una sigaretta dal pacchetto di Gauloises rosse e l’annusai; la mia prima volta. Con la gola in fiamme, nauseato dal sapore acre del tabacco, mi resi conto di non aver mai percorso le strade di Anzio a quell’ora. Il paesaggio era popolato da colori cangianti, sfumature generate da dosi centellinate del sole che si preparava ad albeggiare su Tor Caldara.

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Il silenzio aveva la voce del vento che sibilava fra i cespugli spinosi e l’erba incolta, un suono che si incorporò alla risonanza del mare prendendo spessore dal sentore salino, gelido e intenso, sprigionato come vapore dalle onde che si infrangevano sulla costa. Per la prima volta, attraversai da solo un luogo magico, una riserva naturale che in diverse occasioni aveva incorniciato le ore trascorse con mio padre in un dipinto astratto fatto di sogni e irrazionalità.

Il trillo degli uccelli lungo i viali alberati mi accompagnò fino allo scoccare delle sei del mattino; due ore di fuga senza sosta. Avevo percorso nove kilometri, e cioè la distanza esatta fra casa mia e quella di Chiara, l’unica persona che avrei voluto salutare prima di sparire.

Io e Chiara avevamo frequentato la stessa scuola elementare per cinque anni ma mi accorsi di lei soltanto in occasione della gita organizzata dalla scuola nell’ultimo anno: rimasi folgorato. Portava sulle spalle uno zainetto a forma di orsacchiotto che la distingueva dal gruppo. Ciocche di capelli lungo il viso, dorati sulle punte, custodivano uno sguardo timido, riservato. Quando ci preparammo a scendere dal mezzo, catapultandoci in massa davanti l’uscita, ci ritrovammo spalla contro spalla, stretti a fissarci fino all’apertura delle porte: amore a prima vista.

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Suo padre si rivelò un uomo estremamente geloso e non ci permise di condividere del tempo fuori dall’ambito scolastico. La nostra relazione si consumò su una brace platonica fatta di sguardi rubati nei corridoi e biglietti passati sottobanco dai rispettivi compagni di classe. Quando l’anno scolastico volse al termine, le nostre strade si divisero e, semplicemente, ci perdemmo di vista. La cercai durante le mie passeggiate in bici, in spiaggia nelle stagioni estive, negli autobus fra la gente. Cinque anni dopo, ci rincontrammo; il destino volle che i suoi genitori acquistassero una casa a pochi kilometri dalla zona in cui ho sempre vissuto. Provai una forte attrazione e percepii una grandissima voglia di riscattare, in maniera concreta, una relazione che era stata vissuta soltanto come una chimera. Ma qualcosa non andò per il verso giusto e il nostro rapporto rimase in equilibrio fra una profonda amicizia e un sentimento d’amore che non aveva mai trovato la forza per spingersi fuori.


   

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Fermo in un angolo della strada con il pollice in attesa di un impulso decisivo per inviare il messaggio, posai lo sguardo al terzo piano sulla finestra della sua stanza e la immaginai al caldo sotto le coperte. Avrei voluto guardarla negli occhi ancora una volta per spiegarle la situazione e ricevere un sostegno morale, un abbraccio, o solo un messaggio da ascoltare lungo il tragitto. In realtà, una parte di me voleva essere trattenuta per dare voce all’ansia che spingeva sul petto: la paura di affrontare l’incognito, rinunciando ai rapporti che avevo costruito nella vita, si era palesata all’idea di varcare quel confine da cui non sarei più tornato indietro. “Sei il risultato di ciò che sei disposto a sacrificare. A cosa rinunceresti per seguire i tuoi sogni?” Mio padre mi aveva posto questa domanda prima di ammalarsi in una delle tante conversazioni serali sul letto della mia stanza. Quella volta non riuscii a rispondergli, e sono certo che non era una risposta ciò che cercava.

Spensi il cellulare e puntai avanti, spedito. Cercai di scrollarmi di dosso tutte quelle sensazioni scaturite da pensieri che volevano ancorarmi al terreno: lo sguardo di Chiara, i colori di quei luoghi, gli odori e i rumori di casa.

  

  

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Mi sembrò di sentire i passi di Bernadette. La vidi entrare nella mia camera mentre inciampavo in una buca. Immaginai il suo viso sbalordito nel vedere il letto vuoto. Sentii la sua voce chiamarmi sulle scale e, una dopo l’altra, in tutte le stanze. Corsi più che potevo. Raggirai una siepe mentre il sole completava l’opera quotidiana inondando di luce ogni cosa. Scavalcai una recinzione e finii dentro un canale di irrigazione in mezzo al fango. Con le scarpe che soffocavano nel terreno mi addentrai in un campo di pannocchie e fuggii ai richiami di un contadino su un aratro che blaterò parole incomprensibili. Sull’altura, un treno sfondò la tela del paesaggio in cui mi stavo muovendo sgusciando fra la vegetazione come un serpente di ferro. Attraversai un canale di irrigazione e risalii lungo una scarpata fino alle rotaie. Liberate le suole dal fango, ignorai il bruciore alle piante dei piedi e proseguii la marcia lungo il binario cercando di distanziare gli agricoltori che ancora mi tenevano sotto tiro. A debita distanza, mi concessi un attimo di tregua, tolsi le scarpe e ripresi fiato guardandomi intorno. Le strida di un rapace trascinarono il mio sguardo lungo il promontorio roccioso sul quale si inerpicava il binario ferroviario, un segno: il convoglio si era arrestato in prossimità di una galleria.

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Gambe in spalla, con la consapevolezza di non poter tenere quell’andatura ancora per molto, raggiunsi il mezzo: un treno merci costituito prevalentemente da container. Raggiunsi le carrozze centrali e, invano, cercai di aprire una delle porte. Avvertii nell’aria un olezzo di tabacco e scrutai, dalla parte opposta del vagone, un uomo che stava armeggiando con degli attrezzi. Tranciò la punta del sigaro, che ripose nella tasca della tuta, e si infilò sotto il punto di congiunzione dei due vagoni.

«Anche il gancio dell’ultimo vagone sta bene» annunciò alla radio trasmittente tirandosi fuori. «Ho riempito di grasso i respingenti e, per quanto mi riguarda, nessuna avaria, possiamo ripartire» comunicò asciugandosi le mani sui pantaloni.

Picchiai un pugno sulla carrozza. Poi altri due, più forti. Dalla parte opposta, l’operaio incrociò il mio sguardo e salì sul treno. Spalancò la porta e affacciatosi con la radiotrasmittente in mano mi fissò sorpreso.
   

  

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«E tu? Da dove sbuchi fuori?»

«Ho bisogno di un passaggio!» dissi allungando il braccio con duecento euro in mano. L’uomo rise mentre il treno accennava a muoversi. «È tutto quello che ho».

«Ti saresti potuto pagare un viaggio in prima classe! Ma quanti anni hai?»

«Diciotto. Quasi!»

«Questo è un treno merci. È diretto a Genova».

«Non importa dov’è diretto» specificai in procinto di salire. L’operatore si guardò intorno, allungò la mano e mi tirò su.

«Non potevo mica lasciarti nel bel mezzo del nulla» disse sfilandomi le banconote. «Io non ti ho visto!» concluse bloccando la porta.

Il treno raggiunse la velocità di crociera mentre attraversavamo i vagoni in cui respirai l’odore nauseante di tabacco, grasso e ferro.

«Puoi rimanere qui» disse indicandomi uno scomparto pieno di pedane e scatoloni. «Ti dirò io quando scendere, la strada è molta. Fatti una bella dormita».
   
  

   

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Fuori la luce, dentro, le ombre. Scatole, pedane e casse di legno venivano investite da schegge di luce che si insinuavano dalle fessure del convoglio mentre il fracasso assordante delle rotaie accompagnava dentro lame d’aria gelida.

A tratti, la luce che si espandeva per qualche secondo all’interno del vagone mi concedeva la possibilità di leggere fra gli appunti di mio padre. Rilessi stati d’animo di tutta una vita immortalati dall’inchiostro e scoprii concetti che mi erano sfuggiti, frasi alla ricerca di un’anima da sfamare.

“Non essere normali vuol dire svegliarsi al mattino e indossare un vestito bianco che gli altri, quelli normali, vedono nero. All’inizio ti sforzi e cerchi di capire perché. Perché gli altri vedono un colore diverso dal tuo? Ti guardi allo specchio e strizzi gli occhi nella speranza di percepire la stessa cromia, vorresti avvicinarti al pensiero della gente che ti osserva con diffidenza, ma è tutto inutile. Vedi bianco. Così, non potendo passare la vita a cercare di vedere le cose in modo diverso da come te lo propongono i tuoi occhi, ti rassegni alla diversità come se fosse un difetto di fabbrica. Sei un fottuto pazzo? No, sei te stesso.”

   

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L’andatura del treno mi cullò fra i ricordi, indietro nel tempo fino al giorno in cui decisi di non frequentare più la scuola. Bernadette non accennò alcun gesto di dissenso. “Perfetto, vai a cercarti un lavoro” disse in tutta calma mentre cucinava. Senza battere ciglio, dopo la prima settimana di assenza dalle lezioni, chiamò la scuola e avvertì la segreteria del mio ritiro; rimasi chiuso dentro la mia stanza per tre giorni. Quando uscii dalla tana capii che il rapporto che avevo con mia madre aveva subito un cambiamento drastico, una metamorfosi preannunciata da una serie di atteggiamenti a cui riuscii ad attribuire un senso. Capii che non era nei suoi piani occuparsi di me, che avrebbe voluto farmi crescere in fretta, così, le tolsi di dosso il velo della devozione con cui ogni figlio ricopre i propri genitori e iniziai a vedere le cose per quello che erano. I suoi sguardi cominciarono a trasmettermi rassegnazione, inquietudine, indifferenza.


   

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Gli scossoni del mezzo pesante in cui viaggiavo mi tenevano in uno stato di dormiveglia. Sulla superficie degli scatoloni le ombre mi proponevano figure astratte, spettri che si dissolvevano con la stessa velocità con cui erano apparsi. In uno di essi vidi il viso di Sofia. Nei suoi occhi, nella sua innocenza, si specchiava il volto della serenità. L’unica, in famiglia, a detenere l’essenza della libertà, quello stato spirituale, che ogni essere possiede alla nascita, destinato a perdersi lungo le fasi della crescita attraverso ramificazioni di pensieri che soffocano l’istinto. La immaginavo lì, nel suo seggiolone, ad armeggiare con curiosità il suo giocattolo prediletto: una volante della polizia. Rimaneva ore a fissare il lampeggiante blu, il suo colore preferito.

In un tumulto, il treno rallentò la sua corsa e proseguì lentamente come se fosse in procinto di arrestarsi. Un fascio di luce blu attraversò lo spazio in cui ero immerso e in un raptus di ritrovata lucidità mi resi conto di essere arrivato al capolinea. Afferrai lo zaino, raggiunsi la porta di ingresso e saltai fuori dal mezzo ancora in movimento. Con il viso sul suolo, vidi l’operatore indicare la mia posizione agli agenti di polizia che si precipitarono all’inseguimento.
   

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Rotolai sotto il vagone e fuggii attraverso una scarpata. Scivolai impattando più volte sul suolo e sulle rocce. La pendenza mi trascinò a valle, sempre più rapidamente. Cercai di ancorarmi al terreno per rallentare la caduta sradicando dei fuscelli e con i talloni piantati al suolo riuscii a fermarmi sull’orlo del dirupo. Gli agenti, sostenendosi a vicenda, cercarono di raggiungermi ma, nel tempo di un sospiro, il terreno che si sgretolò sotto i miei piedi anticipò quella che sarebbe stata la mia prossima mossa. Dopo un volo di qualche metro mi schiantai sull’asfalto. Con una sterzata brusca, l’auto che viaggiava sulla strada statale in cui mi ritrovai riuscì a evitarmi. Bersaglio di altre automobili, che piantarono sui freni in successione, attraversai la strada zoppicando e raggiunsi il parcheggio di un’area di servizio. Entrai in un wc. Le mie mani erano violacee, sanguinavano. Le tenni sotto il flusso dell’acqua per qualche secondo, mi cambiai i vestiti, tirai fuori i quaderni e abbandonai lo zaino con tutto il resto delle cose dentro il secchio dei rifiuti. Acquistai un paio di occhiali da sole e rimasi a osservare la vetrina dei souvenir mentre i poliziotti si catapultavano fuori dalla volante nell’area parcheggio.

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Uscii dalla porta di servizio che un addetto alle pulizie aveva spalancato e, soffocando il dolore al ginocchio, puntai la zona riservata ai mezzi pesanti per giocare la carta dell’autostop. Picchiai sulla fiancata del primo tir senza avere nessuna risposta. A pochi metri, nello stesso momento in cui vidi i poliziotti uscire dal bar, individuai un autoarticolato a motore acceso. Il camionista chiacchierava animatamente con uno dei benzinai a pochi metri di distanza. Entrai. Sedili saturi di fumo. Un paio di stivali Alpinestars smisurati e logorati dal tempo. Bottiglie di birra sparse dentro la cabina. Formulai l’identikit del conducente che, improvvisamente, spalancò la portiera e prese posto. Accovacciato nello spazio antistante al sedile, osservai il camionista munito di cappellino e cuffie che se la rideva con lo sguardo puntato sullo smartphone. In un tonfo, chiuse lo sportello, ingranò la marcia sgasando sull’acceleratore e non appena il tir accennò a muoversi frenò di colpo. Si tolse le cuffie e abbassò il finestrino.

«Salve agente» disse lisciandosi la barba lunga e crespa.

«Dov’è diretto?»

«Taglio il collo allo stivale, vado a Gorizia». Senza distogliere lo sguardo dai suoi interlocutori, afferrò il pacchetto di sigarette posto nel cruscotto e ne tirò fuori una con i denti. Infilò la mano tempestata di tatuaggi nel vano porta oggetti alla ricerca dell’accendino e incrociò il mio sguardo. Il suo viso non si scompose, accese la sigaretta e continuò la conversazione con le forze dell’ordine.

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«Cosa trasporta?»

«Fusti di materiale chimico per le industrie. Acido solforico, Benzene, Fenolo, Propilene… Volete dare un’occhiata?»

«No, non è necessario! Viaggia da solo?»

«Solo come un cane, da quando mia moglie mi ha lasciato! Prima mi faceva compagnia nei tragitti brevi. A dire il vero ogni tanto mi capita di raccattare qualcuno per strada, ovviamente fuori dalle aree autostradali. Lo faccio quando sono in vena di dialogo e, se devo essere sincero, ultimamente non mi va molto di chiacchierare. Sarà che sto diventando vecchio e preferisco riflettere e ascoltare della buona musica piuttosto che annoiarmi a dialogare con sconosciuti che ti riempiono la testa di balle raccontandoti aneddoti di una vita che non hanno mai vissuto…»

«Bene. Buon viaggio allora, e buon lavoro!

Fuori dall’area di servizio, il camionista puntò lo sguardo sugli specchietti retrovisori e io avverti la tipica sensazione di quiete prima della tempesta.

«Vieni fuori da lì» disse senza distogliere lo sguardo dalla strada. Uscii allo scoperto temendo il peggio e presi posto.

 «Chi cazzo sei?»
   
   
   

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«Ho solo bisogno di un passaggio».

L’uomo sbuffò, attivò le quattro frecce e accostò in uno slargo.

«Forse non sono stato chiaro. Riformulo la domanda: Chi cazzo sei?» ripetette puntandomi con la testa come un toro.

«Mi chiamo Dragan… Dragan Codermark».

«Ecco, ora ci siamo. Sai Dragan, questa è la mia casa e se vuoi essere ospite il minimo che puoi fare è presentarti a dovere e rispondere correttamente alle domande che ti pongo, specie se sei stato tanto coraggioso, quanto incosciente, da salire a bordo senza chiedere permesso usando il mio camion come nascondiglio. La seconda domanda è: che cazzo hai comminato? Perché ti stanno cercando?»

«Sono scappato di casa, tutto qui».

«Scappato!? Ma quanti anni hai?»

«Diciotto, compiuti da poco».

Il camionista scosse la testa, si scolò d’un fiato mezza bottiglia di birra, accese una sigaretta, diede due colpi di tosse e dopo un sospiro profondo scatarrò dal finestrino.
  
   

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«Vedi questi?» disse indicando, uno per uno, i tatuaggi sulle dita della mano «servono a dare un volto a quello che ho vissuto. Il teschio sul pollice l’ho fatto a diciannove anni dopo il congedo: durante la naia vidi uccidere un uomo a sangue freddo. Il coltello sull’indice, invece, mi è costato tre mesi di ospedale. L’ho fatto per ricordarmi di quella volta in cui, durante una rissa, presi una coltellata sul fianco che mi causò un’emorragia che mi stava portando all’altro mondo. Brutta storia! Ho altri otto tatuaggi sulle dita e ognuno di essi rappresenta una vicenda che ha contribuito a rendermi quello che sono. Non credo che tu abbia la possibilità di conoscere il significato degli altri disegni perché ti abbandonerò prima sul ciglio della strada. Non sopporto chi si nasconde dietro le menzogne per facilitarsi le cose, viceversa, rispetto profondamente chi ha le palle e ti sbatte in faccia la verità, sempre, soprattutto quando è scomoda e non prospetta nulla di buono».

«Sedici, ho sedici anni».

«Cazzo! Sai cosa succede se ti beccano sul mio camion? Potrebbero accusarmi di pedofilia o chissà cos’altro! Fa’ una cosa, minorenne, prendi due birre nel frigo che trovi dietro il sedile, aprile e bevi con me. Inumidisci il palato e spiegami per benino chi sei e come sei arrivato nel mio camion. Dimenticavo, mi chiamo Alfredo».
  
   

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Nel giro di pochi kilometri, fra birra, sigarette e scenari contemplati dal finestrino come fossero slide show, scoprii quanto può essere semplice mettere a nudo la propria intimità con un estraneo che, senza entrare nel merito dei fatti, si limita ad ascoltare.

La postazione in cui viaggiavo mi offrì la possibilità di vedere tutto da una prospettiva diversa. Dall’alto, scrutai ogni paesaggio mentre raccontavo ad Alfredo le vicende della mia vita. Gli parlai della condizione che avevo vissuto in casa, delle aspettative che avevo maturato e del bisogno, impellente, di mettermi in gioco, descrivendo in modo chiaro, come in una sorta di auto convinzione, i punti cruciali che mi avevano indotto a scappare via e che in un futuro prossimo non mi avrebbero permesso, per nessun motivo al mondo, di tornare sui miei passi.

I cartelli che indicavano le uscite autostradali segnarono il tragitto e il tempo che stavamo divorando. Alfredo mi lasciò parlare come un padre che ascolta il figlio, poi, dopo una breve pausa in cui il silenzio ci riportò con lo sguardo sull’asfalto scheggiato d’oro al tramonto, mi resi conto che era arrivato il momento di ascoltare.
   

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«Adesso cerca di aprire bene le orecchie, ti racconterò una storia che un giorno potrebbe tornarti utile. Avevo appena compiuto quindici anni quando i miei genitori decisero che saremmo andati a vivere in uno chalet di montagna a più di mille metri d’altezza. Mio padre era un guardaboschi, proprio come mio nonno, una professione tramandata di padre in figlio per mezzo di una passione viscerale per la vita montanara. I primi tempi furono molto duri, eravamo parecchio isolati e ogni giorno era una lotta contro il tempo per rispettare gli orari scolastici e i lunghi spostamenti in auto. Nonostante tutto mi adattai presto, nel mio DNA regnava il gene da uomo solitario e nel giro di pochi giorni costatai che i fine settimana mi ripagavano dei sacrifici fatti. Il mio risveglio era incorniciato da pendii ricchi di boschetti rigogliosi su cui riecheggiavano stridi di rapaci di ogni tipo: poiane, falchi, aquile. Quello scenario si impossessò della mia anima. Mi svegliavo prestissimo ansioso di assaporare il calore del sole che scacciava il gelo della notte e impaziente di assistere allo spettacolo che la natura ci regalava. Mia madre non era della stessa opinione. Non era mai stata pienamente convinta di poter vivere in solitudine fra le conifere ma accettò perché voleva crearsi un alibi. I miei si erano sposati giovanissimi e avevano condiviso già una bella fetta della loro vita. Mia madre approfittò del giustificato malessere, causato da quello stile di vita che non le apparteneva, per instaurare una nuova relazione con un maresciallo della polizia; Dio quanto li odio i poliziotti! Mio padre non accusò il colpo, sembrava fosse preparato. Incassò come un pugile che prende un cazzotto nel primo round di un incontro che prevede quindici riprese, rimase in piedi e continuò a perseguitare, con maggiore impegno e libertà, la sua vera passione: fare il falconiere. Non era un lavoro ma uno stile di vita. Significava vivere in simbiosi con la natura, respirare aria d’alta montagna, ricercare prodotti genuini dal sapore inconfondibile e, nello specifico, addestrare e utilizzare i rapaci per cacciare altri uccelli o prede di piccola e media taglia. Quando ero con lui vivevo una magia. Dal suo braccio, l’aquila spiccava in volo verso le vette degli alberi, superava il nostro campo visivo volteggiando fra i raggi del sole filtrati dalle ramaglie. In alcuni momenti riuscivo a captare la trasvolata dell’uccello che sbucava fuori dalle nuvole e con le ali aperte domava le correnti ascensionali. D’un tratto, come un fulmine scoccato dal cielo, tornava giù, in picchiata. Attraversava la vegetazione e agguantava la preda infilzandola con gli artigli. Servile, lasciava che mio padre si impadronisse della preda prima di riposizionarsi sul braccio. Credevo che quell’uomo avesse delle doti sovrannaturali con cui riusciva a ottenere l’ubbidienza dei rapaci, per questo aveva tutta la mia ammirazione. Un bel giorno decise di svelarmi il suo segreto. È stato come scoprire il trucco di un grande mago che per anni ti aveva lasciato fra mille interrogativi con un sapore magico e inspiegabile. Pensò che fossi pronto, abbastanza maturo per capire e imparare il metodo che utilizzava per addestrare le creature del cielo. In realtà, non lo ero, e l’unica cosa che capii è il significato di una frase che avevo sentito pronunziare spesso fra i falconieri a cui non avevo mai dato importanza: sfinire un’aquila».
  

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Alfredo si prese giusto il tempo per inumidirsi le labbra scolandosi la birra. Con lo sguardo vigile sulla strada mi passò la bottiglia vuota e si asciugò la bocca con il dorso della mano.

«Attraverso un faretto, puntavano una luce intensa sul volto del rapace, notte e giorno, senza pause. E servendosi di una cordicella legata alla zampa, che facevano ondeggiare tutte le volte che l’aquila chiudeva gli occhi, la privavano del sonno. In parole povere, la condannavano a non dormire. Per compiere questa sorta di tortura, travestita da addestramento, i falconieri lavorano su turni e, in genere, dopo tre giorni di questo trattamento l’aquila era sfinita. Cominciava a ubbidire incondizionatamente. Perdeva la ragione. Vidi la cosa sotto un altro aspetto. Non c’era più quella magia, non c’era rispetto, l’aquila perdeva la capacità di decidere, veniva privata del suo istinto, costretta a eseguire gli ordini. Quell’episodio mi schiarì le idee. Capii che mio padre non si era guadagnato l’ubbidienza degli animali ma ne possedeva il controllo, e allo stesso modo, dedussi che avrebbe voluto il controllo della sua famiglia. Probabilmente desiderava l’ubbidienza incondizionata anche da parte mia e di mia madre, infatti, quando mi rifiutai di seguire le sue orme, cambiò atteggiamento nei miei confronti. Con il cuore a pezzi, dovetti abbandonare quel luogo magico per tornare a vivere in città da mia madre, ma anche quella, non fu una convivenza che durò a lungo. A diciotto anni fui chiamato alle armi e mi sembrò una benedizione. Feci il giuramento nella caserma operativa dei paracadutisti a Scandicci e dopo due mesi mi portarono a destinazione in un ospedale militare, una caserma che si affacciava sul mare conosciuta come “l’hotel a 5 stelle“. Un presidio con una cinquantina di soldati semplici richiamati a compiere il lavoro di civili stipendiati che timbravano il cartellino e se ne tornavano a casa. Un Hotel gestito da ufficiali profumatamente pagati dallo stato che facevano quel cazzo che volevano. L’anno di naia mi ha insegnato molto nella gestione dei rapporti umani. Inoltre, ho imparato a dirigere la mia vita senza l’aiuto di nessuno, a decidere in autonomia. Durante il servizio ebbi la possibilità di acquisire le patenti per i mezzi pesanti e, quando mi congedai, cominciai a vivere dentro questi giganti di ferro in cui ho trovato la mia indipendenza e la mia condanna. Sono passati trentacinque anni da allora. Ogni giorno è uguale, tranne quando, per un motivo dettato dalle coincidenze, la mia giornata si incrocia con quella di un perfetto sconosciuto».

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«Non hai una famiglia? Dei figli?»

«L’idea di mettere radici mi ha sempre spaventato, probabilmente perché non ho avuto un buon esempio».

«E non hai mai incontrato qualcuno che avrebbe potuto farti cambiare idea?»

«Si, mi è capitato, ma ho sempre dato più importanza al mio lavoro. Questo mestiere non si presta a una conduzione familiare in cui ci sono figli, doveri coniugali e orari da rispettare, anche se, ripensandoci, forse è stata solo una scusa che mi sono raccontato per giustificare la mia contrarietà ai rapporti umani duraturi, alla difficoltà con cui mi fido della gente. Più passa il tempo, più mi convinco del fatto che questa mancanza di fiducia verso le persone che hanno incrociato la mia strada mi ha condannato a vivere su questa terra in solitudine».

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Percorremmo quasi trecento kilometri senza accusare il peso della stanchezza, e nonostante fosse diretto a Gorizia, Alfredo scelse un itinerario diverso per accompagnarmi nei pressi di Trieste, a circa venti minuti dal confine sloveno. Deviò all’interno di un’area di servizio e spense il motore.

«Hai sedici anni, che cazzo! Chi sono io per dirti cosa è giusto e cosa è sbagliato?! Apri bene le orecchie… Sulla statale, a un paio di kilometri, c’è la pensione Mirabella. È un posto tranquillo in cui mi rifugio quando consegno da queste parti e ho bisogno di fare una doccia, mangiare qualcosa di buono e dormire su un letto vero. Chiedi del signor Manfredi e dì che sei un mio amico: è in debito con me e ti darà una stanza. Mangia, dormi e domattina, raccolte le energie necessarie, continua il tuo viaggio. Costruisci il tuo destino, dall’alba al tramonto, senza farti troppe domande e senza abbandonare mai una priorità: trovare persone di cui fidarti. O rischi di catapultarti in un futuro di trent’anni dopo, solo, e senza sapere cosa ne hai fatto della tua vita».
   

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Quando finì di parlare, Alfredo mi guardò con distacco mantenendo uno spazio vitale che volli rispettare.

«Vado a mangiare un boccone, parlare tanto mi mette appetito» puntualizzò raccattando le sue cose. «Al mio ritorno, farò finta di aver avuto un amico immaginario con cui sono stato felice di chiacchierare».

«Grazie» dissi frenando per un attimo il gigante buono sui gradini.

«Dovere di camionista».

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