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Capitolo 1

LA RIVELAZIONE

Roberto Puccio
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Era il 25 dicembre e Sofia non smetteva di piangere. Dal seggiolone, osservava gli oggetti irraggiungibili che occupavano la tavola addobbata a festa. Con il braccio allungato in avanti, gli occhi in lacrime e le piccole dita che si contorcevano, cercava di afferrare qualcosa per quietare la fame di curiosità che, normalmente, divora una bambina di diciotto mesi.

Mio padre guardava fuori. Il viso contro il vetro della finestra e non parlava. Rimaneva lì, giornate intere con lo sguardo perso dentro un paesaggio che non vedeva, prigioniero di uno stato depressivo che si era impossessato del suo tempo presente. Silenzio e volto inespressivo erano parte di una normalità che lo manteneva distante da noi e da se stesso, una condizione inaccettabile che, quel giorno, bersagliai con occhiate cariche di speranza, ricercando disperatamente un’attenzione, un movimento, un gesto che avrebbe rivelato la sua presenza.

I rumori delle stoviglie e il profumo del tacchino annunciarono l’ingresso di Bernadette, mia madre. Il fumo che si sprigionò dalla teglia le nascose il sorriso che da qualche tempo le si era ricucito addosso e che, in quel momento, a differenza di tutte le volte in cui lo aveva elargito con abile dissimulazione, ebbe un alibi di ferro per presenziare il suo volto.
   
   

   

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LA MANIPOLAZIONE DELL’ANIMA
Roberto Puccio

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«Buon Natale! Mangia che si fredda» disse mentre spargeva dei pezzetti di mollica sul ripiano del seggiolone per quietare mia sorella.

Ti odio, pensai inebriato dal profumo della pietanza con lo stomaco che si contorceva per l’appetito. Afferrai la forchetta come un pugnale e infilzai una patata mentre suonavano alla porta. Con la bocca aperta e la patata sotto il naso, osservai mia madre scattare dalla sedia. Lanciò un’occhiata all’orologio, raccolse i capelli dietro la testa e aprì: un giorno inconsueto per la visita di routine del medico che interruppe il nostro pranzo.

Il dottor Bhauer entrò spedito, sorrise. Afferrò mio padre per il braccio e lo trascinò sulla sedia. Lo rigirò come un fantoccio, gli scoprì il dorso e in pochi secondi, con la stessa attenzione con cui si piscia fuori dalla tazza, auscultò torace e schiena. Dopo uno sguardo veloce alle pupille, lo ricoprì, e con un’espressione di superiorità che alimentò il sentimento d’odio con cui andava a braccetto la mia anima, fece un cenno con la testa a Bernadette per farsi seguire al piano di sopra.

 «Dragan, iniziate a mangiare, vedi se tuo padre vuole qualcosa» disse lei, mia madre, mentre si faceva trascinare sulle scale.

   

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Abbandonai la forchetta sul piatto e alzai il volume della TV al massimo. Tirai fuori dalla tasca il taccuino e trasferii sui fogli sgualciti ogni pensiero. Un’abitudine curativa ereditata da mio padre, un metodo con cui potevo liberarmi dalla negatività con un duplice obiettivo. Il primo; mi dissociavo dai pensieri che una volta trasferiti in un foglio si trasformavano in qualcosa di materiale che potevo tenere lontano. Secondo, immortalavo il mio stato d’animo per conservare un’immagine di ciò che avevo provato, proprio come faceva mio padre prima di piombare in quello stato di catalessi.

“Sai qual è la differenza fra uno scrittore e uno che scrive?” mi chiese una sera in cui mi sorprese a sbirciare fra i suoi appunti. “Il primo ha davanti un foglio bianco ed è vittima di un blocco che non gli consente di riempirlo. Deve seguire dei parametri. Valutare, misurare. Il secondo, quello che scrive, ha la mente sgombera, costantemente predisposta a elaborare pensieri istintivi, un ingranaggio perpetuo che raccoglie ogni dato in qualsiasi momento del giorno e della notte. Il foglio che ha davanti gli occhi è già scritto, i contenuti sono nel vissuto. Se vuoi capire chi sei non identificarti con la mente, osservati dall’alto e racconta ciò che vedi. Un giorno capirai di avere assemblato tessere di un mosaico così grande, com’è la vita, da non poter cogliere congruenza fra le tessere che lo compongono fino al momento in cui non avrai davanti agli occhi l’opera in tutta la sua completezza.”

   

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Bhauer e Bernadette scesero le scale leggeri come nuvole e riconquistarono la scena in quella sorta di “opera teatrale” che intitolai Il pranzo sconsacrato. Mi sedetti sui fogli e finsi di guardare la TV, Sofia dormiva con la testa pendula e un pezzo di mollica fra le dita. Il dottore accennò una smorfia di dissenso per il volume eccessivo della televisione che mia madre, prontamente, regolò di intensità, si rifocillò il palato con un bicchiere di vino, mi salutò con un cenno della mano e si avviò verso l’uscita. Bernadette intascò il denaro che le consegnò il medico, si chiuse la porta alle spalle e tornò al tavolo.

«Non hai mangiato niente?»

«Non ho fame» risposi fissando la parete.

Sofia scoppiò in un pianto disperato, un assist con cui mia madre uscì di scena da un palcoscenico che non riusciva a calcare. Mi trafisse con uno sguardo d’accusa privo di ogni fondamento, prese in braccio mia sorella e la portò nella stanza da letto.
   

   

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Mio padre aveva chiuso gli occhi. Le pillole che gli somministravano lo rendevano inerme, disarmato. Lo privavano del tempo prezioso con cui avrebbe potuto riscattare la sua vita se solo avesse avuto la possibilità di dedicarsi ancora all’unica cosa che amava veramente, scrivere.

«Buonanotte» gli sussurrai all’orecchio. Spensi la televisione e lo baciai sulla guancia. Le sue palpebre tremavano. Sognava. O forse viveva qualcosa di più grande, un’esperienza mistica. Mi piaceva credere che la sua anima si fosse distaccata dal corpo per vivere altrove. Un luogo in cui non era costretta da ferite e poteva manifestarsi liberamente.

«Buttala via» disse sospirando.

Le sue parole tuonarono nel silenzio frantumando ogni pensiero e mi riportarono al presente. Attonito, agguantai la pillola che teneva sul palmo della mano e rimasi in attesa senza fiatare. Mi afferrò per il braccio e mi strinse a se: avevo temuto di non sentire più la sua voce, la sua autorità. Dalla tasca dei pantaloni tirò fuori delle banconote avvolte in un elastico, deglutì, raccolse il fiato e intrecciò le mani con le mie mentre venivo inghiottito dal suo sguardo.
   

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«Dragan, devi andare via da questa casa».ùAvvinghiato alla sua anima, al caldo fra i suoi pensieri, cercai di metabolizzare un messaggio che non aveva bisogno di replica. Avrei voluto fargli mille domande prima di tornare al gelo ma, non appena le sue dita mollarono la presa, le parole diventarono stalattiti salde alla gola. Scattai su per le scale, dentro la mia stanza. Sul letto, ripresi a respirare e guardai il soffitto come se potessi vedere il cielo. Le stelle dietro il cemento si accesero descrivendo una scia fiammeggiante, il profilo di un tragitto lungo le arterie dell’oscurità.

Tre mila euro in contanti e uno stralcio di foglio con un messaggio.

Ascolta a volume moderato e continua la lettura

   

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   Con il cuore fuori dal petto e una stretta allo stomaco che mi fece sentire vivo, scrissi una serie di punti da seguire. Pugnalate su un foglio che tracciarono la mia più grande ambizione, scrivere, ricavando ispirazione dai paesaggi lungo il cammino, estrapolando concetti dal momento presente deprivato di ogni pensiero, camminando a piedi nudi lungo il dolore, l’euforia, la paura e l’incanto. Smanioso di sguainare la personalità come una spada e di indossare l’esperienza come un’armatura forgiata dallo spirito, per vivere ogni giorno nella libertà di manifestare tutto l’amore e l’odio.
   

   

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