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La manipolazione dell’anima. Capitolo 3

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Introduzione

“Addio Mamma”

Due parole.
Non riuscii a scriverne altre prima di andare. Non la odiavo, né l’avevo condannata, semplicemente non riconoscevo più il suo volto. La sua immagine era stata oscurata da nuvole di carbone, guardiani incorruttibili che non hanno lasciato trapelare luce utile a rammentare i ricordi di un’infanzia messa al patibolo. Ha sofferto anche lei e, stanca di combattere, ha lasciato che il male entrasse in casa nostra per semplificarle la vita. Si è lasciata raggirare, convincere. Vittima di un mercante di anime che ha ottenuto la sua a basso costo.

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Capitolo 3

SFINIRE UN’AQUILA

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Fermo in un angolo della strada, con il pollice in attesa di un impulso decisivo per inviare il messaggio, posai lo sguardo al terzo piano sulla finestra della sua stanza e la immaginai al caldo sotto le coperte. Avrei voluto guardarla negli occhi ancora una volta per spiegarle la situazione e ricevere un sostegno morale, un abbraccio, o solo un messaggio da ascoltare lungo il tragitto. In realtà, una parte di me voleva essere trattenuta per dare voce all’ansia che spingeva sul petto: la paura di affrontare l’incognito, rinunciando ai rapporti che avevo costruito nella vita, si era palesata all’idea di varcare quel confine da cui non sarei più tornato indietro. “Sei il risultato di ciò che sei disposto a sacrificare. A cosa rinunceresti per seguire i tuoi sogni?” Mio padre mi aveva posto questa domanda prima di ammalarsi, in una delle tante conversazioni serali sul letto della mia stanza. Quella volta non riuscii a rispondergli ma sono certo che non era una risposta ciò che cercava.

Spensi il cellulare e puntai avanti, spedito. Cercai di scrollarmi di dosso tutte quelle sensazioni scaturite da pensieri che volevano ancorarmi al terreno: lo sguardo di Chiara, i colori di quei luoghi, gli odori e i rumori di casa.

  

  

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Mi sembrò di sentire i passi di Bernadette. La vidi entrare nella mia camera mentre inciampavo in una buca. Immaginai il suo viso sbalordito nel vedere il letto vuoto. Sentii la sua voce chiamarmi sulle scale e, una dopo l’altra, in tutte le stanze. Corsi più che potevo. Raggirai una siepe mentre il sole completava l’opera quotidiana inondando di luce ogni cosa. Scavalcai una recinzione e finii dentro un canale di irrigazione in mezzo al fango. Con le scarpe che soffocavano nel terreno mi addentrai in un campo di pannocchie e fuggii ai richiami di un contadino su un aratro che bestemmiò blaterando parole incomprensibili. Sull’altura, un treno sfondò la tela del paesaggio in cui mi stavo muovendo sgusciando fra la vegetazione come un serpente di ferro. Attraversai un canale di irrigazione e risalii lungo una scarpata fino alle rotaie. Liberate le suole dal fango, ignorai il bruciore alle piante dei piedi e proseguii la marcia lungo il binario cercando di distanziare gli agricoltori che mi tenevano sotto tiro. A debita distanza, mi concessi un attimo di tregua, tolsi le scarpe e ripresi fiato guardandomi intorno. Le strida di un rapace trascinarono il mio sguardo lungo il promontorio roccioso sul quale si inerpicava il binario ferroviario, un segno: il convoglio si era arrestato in prossimità di una galleria.

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Fuori la luce, dentro, le ombre. Scatole di cartone, pedane e casse di legno venivano investite da schegge luminose che si insinuavano dalle fessure della carrozza. Il fracasso assordante delle rotaie accompagnava all’interno lame d’aria gelida.

A tratti, la luce che si espandeva per qualche secondo all’interno del vagone mi concedeva la possibilità di leggere fra gli appunti di mio padre. Rilessi stati d’animo di tutta una vita immortalati dall’inchiostro e scoprii concetti che mi erano sfuggiti, frasi alla ricerca di un’anima da sfamare.

“Non essere normali vuol dire svegliarsi al mattino e indossare un vestito bianco che gli altri, quelli normali, vedono nero. All’inizio ti sforzi e cerchi di capire perché. Perché gli altri vedono un colore diverso dal tuo? Ti guardi allo specchio e strizzi gli occhi nella speranza di percepire la stessa cromia, vorresti avvicinarti al pensiero della gente che ti osserva con diffidenza, ma è tutto inutile. Vedi bianco. Così, non potendo passare la vita a cercare di vedere le cose in modo diverso da come te lo propongono i tuoi occhi, ti rassegni alla diversità come se fosse un difetto di fabbrica. Sei un fottuto pazzo? No, sei te stesso.”

   

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In un tumulto, il treno rallentò la sua corsa e proseguì lentamente come se fosse in procinto di arrestarsi. Un fascio di luce blu attraversò lo spazio in cui ero immerso e in un raptus di ritrovata lucidità mi resi conto di essere arrivato al capolinea. Afferrai lo zaino, raggiunsi la porta di ingresso e saltai fuori dal mezzo ancora in movimento. Con il viso sul suolo, vidi l’operatore indicare la mia posizione agli agenti di polizia che si precipitarono all’inseguimento.
   

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Rotolai sotto il vagone e fuggii attraverso una scarpata. Scivolai impattando più volte sul suolo e sulle rocce. La pendenza mi trascinò a valle, sempre più rapidamente. Cercai di ancorarmi al terreno per rallentare la caduta sradicando dei fuscelli e con i talloni piantati al suolo riuscii a fermarmi sull’orlo del dirupo. Gli agenti, sostenendosi a vicenda, cercarono di raggiungermi ma, nel tempo di un sospiro, il terreno che si sgretolò sotto i miei piedi anticipò quella che sarebbe stata la mia prossima mossa. Dopo un volo di qualche metro mi schiantai sull’asfalto. Con una sterzata brusca, l’auto che viaggiava sulla strada statale in cui mi ritrovai riuscì a evitarmi. Bersaglio di altre automobili, che piantarono sui freni in successione, attraversai la strada zoppicando e raggiunsi il parcheggio di un’area di servizio. Entrai in un wc. Le mie mani erano violacee, sanguinavano. Le tenni sotto il flusso dell’acqua per qualche secondo, mi cambiai i vestiti, tirai fuori i quaderni e abbandonai lo zaino con tutto il resto delle cose dentro il secchio dei rifiuti. Acquistai un paio di occhiali da sole e rimasi a osservare la vetrina dei souvenir mentre i poliziotti si catapultavano fuori dalla volante nell’area parcheggio.

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Uscii dalla porta di servizio che un addetto alle pulizie aveva spalancato e, soffocando il dolore al ginocchio, puntai la zona riservata ai mezzi pesanti per giocare la carta dell’autostop. Picchiai sulla fiancata del primo tir senza avere nessuna risposta. A pochi metri, nello stesso momento in cui vidi i poliziotti uscire dal bar, individuai un autoarticolato a motore acceso. Il camionista chiacchierava animatamente con uno dei benzinai a pochi metri di distanza. Entrai. Sedili saturi di fumo. Un paio di stivali Alpinestars smisurati e logorati dal tempo. Bottiglie di birra sparse dentro la cabina. Formulai l’identikit del conducente che, improvvisamente, spalancò la portiera e prese posto. Accovacciato nello spazio antistante al sedile, osservai il camionista munito di cappellino e cuffie che se la rideva con lo sguardo puntato sullo smartphone. In un tonfo, chiuse lo sportello, ingranò la marcia sgasando sull’acceleratore e non appena il tir accennò a muoversi frenò di colpo. Si tolse le cuffie e abbassò il finestrino.

«Salve agente» disse lisciandosi la barba lunga e crespa.

«Dov’è diretto?»

«Taglio il collo allo stivale, vado a Gorizia». Senza distogliere lo sguardo dai suoi interlocutori, afferrò il pacchetto di sigarette posto nel cruscotto e ne tirò fuori una con i denti. Infilò la mano tempestata di tatuaggi nel vano porta oggetti alla ricerca dell’accendino e incrociò il mio sguardo. Il suo viso non si scompose, accese la sigaretta e continuò la conversazione con le forze dell’ordine.

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«Cosa trasporta?»

«Fusti di materiale chimico per le industrie. Acido solforico, Benzene, Fenolo, Propilene… Volete dare un’occhiata?»

«No, non è necessario! Viaggia da solo?»

«Solo come un cane, da quando mia moglie mi ha lasciato! Prima mi faceva compagnia nei tragitti brevi. A dire il vero ogni tanto mi capita di raccattare qualcuno per strada, ovviamente fuori dalle aree autostradali. Lo faccio quando sono in vena di dialogo e, se devo essere sincero, ultimamente non mi va molto di chiacchierare. Sarà che sto diventando vecchio e preferisco riflettere e ascoltare della buona musica piuttosto che annoiarmi a dialogare con sconosciuti che ti riempiono la testa di balle raccontandoti aneddoti di una vita che non hanno mai vissuto…»

«Bene. Buon viaggio allora, e buon lavoro!

Fuori dall’area di servizio, il camionista puntò lo sguardo sugli specchietti retrovisori e io avverti la tipica sensazione di quiete prima della tempesta.

«Vieni fuori da lì» disse senza distogliere lo sguardo dalla strada. Uscii allo scoperto temendo il peggio e presi posto.

 «Chi cazzo sei?»
   
   
   

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«Ho solo bisogno di un passaggio».

L’uomo sbuffò, attivò le quattro frecce e accostò in uno slargo.

«Forse non sono stato chiaro. Riformulo la domanda: Chi cazzo sei?» ripetette puntandomi con la testa come un toro.

«Mi chiamo Dragan… Dragan Codermark».

«Ecco, ora ci siamo. Sai Dragan, questa è la mia casa e se vuoi essere ospite il minimo che puoi fare è presentarti a dovere e rispondere correttamente alle domande che ti pongo, specie se sei stato tanto coraggioso, quanto incosciente, da salire a bordo senza chiedere permesso usando il mio camion come nascondiglio. La seconda domanda è: che cazzo hai comminato? Perché ti stanno cercando?»

«Sono scappato di casa, tutto qui».

«Scappato!? Ma quanti anni hai?»

«Diciotto, compiuti da poco».

Il camionista scosse la testa, si scolò d’un fiato mezza bottiglia di birra, accese una sigaretta, diede due colpi di tosse e dopo un sospiro profondo scatarrò dal finestrino.
  
   

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«Vedi questi?» disse indicando, uno per uno, i tatuaggi sulle dita della mano «servono a dare un volto a quello che ho vissuto. Il teschio sul pollice l’ho fatto a diciannove anni dopo il congedo: durante la naia vidi uccidere un uomo a sangue freddo. Il coltello sull’indice, invece, mi è costato tre mesi di ospedale. L’ho fatto per ricordarmi di quella volta in cui, durante una rissa, presi una coltellata sul fianco che mi causò un’emorragia che mi stava portando all’altro mondo. Brutta storia! Ho altri otto tatuaggi sulle dita e ognuno di essi rappresenta una vicenda che ha contribuito a rendermi quello che sono. Non credo che tu abbia la possibilità di conoscere il significato degli altri disegni perché ti abbandonerò prima sul ciglio della strada. Non sopporto chi si nasconde dietro le menzogne per facilitarsi le cose, viceversa, rispetto profondamente chi ha le palle e ti sbatte in faccia la verità, sempre, soprattutto quando è scomoda e non prospetta nulla di buono».

«Sedici, ho sedici anni».

«Cazzo! Sai cosa succede se ti beccano sul mio camion? Potrebbero accusarmi di pedofilia o chissà cos’altro! Fa’ una cosa, minorenne, prendi due birre nel frigo che trovi dietro il sedile, aprile e bevi con me. Inumidisci il palato e spiegami per benino chi sei e come sei arrivato nel mio camion. Dimenticavo, mi chiamo Alfredo».
  
   

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«Adesso cerca di aprire bene le orecchie, ti racconterò una storia che un giorno potrebbe tornarti utile. Avevo appena compiuto quindici anni quando i miei genitori decisero che saremmo andati a vivere in uno chalet di montagna a più di mille metri d’altezza. Mio padre era un guardaboschi, proprio come mio nonno, una professione tramandata di padre in figlio per mezzo di una passione viscerale per la vita montanara. I primi tempi furono molto duri, eravamo parecchio isolati e ogni giorno era una lotta contro il tempo per rispettare gli orari scolastici e i lunghi spostamenti in auto. Nonostante tutto mi adattai presto, nel mio DNA regnava il gene da uomo solitario e nel giro di pochi giorni costatai che i fine settimana mi ripagavano dei sacrifici fatti. Il mio risveglio era incorniciato da pendii ricchi di boschetti rigogliosi su cui riecheggiavano stridi di rapaci di ogni tipo: poiane, falchi, aquile. Quello scenario si impossessò della mia anima. Mi svegliavo prestissimo ansioso di assaporare il calore del sole che scacciava il gelo della notte e impaziente di assistere allo spettacolo che la natura ci regalava. Mia madre non era della stessa opinione. Non era mai stata pienamente convinta di poter vivere in solitudine fra le conifere ma accettò perché voleva crearsi un alibi. I miei si erano sposati giovanissimi e avevano condiviso già una bella fetta della loro vita. Mia madre approfittò del giustificato malessere, causato da quello stile di vita che non le apparteneva, per instaurare una nuova relazione con un maresciallo della polizia; Dio quanto li odio i poliziotti! Mio padre non accusò il colpo, sembrava fosse preparato. Incassò come un pugile che prende un cazzotto nel primo round di un incontro che prevede quindici riprese, rimase in piedi e continuò a perseguitare, con maggiore impegno e libertà, la sua vera passione: fare il falconiere. Non era un lavoro ma uno stile di vita. Significava vivere in simbiosi con la natura, respirare aria d’alta montagna, ricercare prodotti genuini dal sapore inconfondibile e, nello specifico, addestrare e utilizzare i rapaci per cacciare altri uccelli o prede di piccola e media taglia. Quando ero con lui vivevo una magia. Dal suo braccio, l’aquila spiccava in volo verso le vette degli alberi, superava il nostro campo visivo volteggiando fra i raggi del sole filtrati dalle ramaglie. In alcuni momenti riuscivo a captare la trasvolata dell’uccello che sbucava fuori dalle nuvole e con le ali aperte domava le correnti ascensionali. D’un tratto, come un fulmine scoccato dal cielo, tornava giù, in picchiata. Attraversava la vegetazione e agguantava la preda infilzandola con gli artigli. Servile, lasciava che mio padre si impadronisse della preda prima di riposizionarsi sul braccio. Credevo che quell’uomo avesse delle doti sovrannaturali con cui riusciva a ottenere l’ubbidienza dei rapaci, per questo aveva tutta la mia ammirazione. Un bel giorno decise di svelarmi il suo segreto. È stato come scoprire il trucco di un grande mago che per anni ti aveva lasciato fra mille interrogativi con un sapore magico e inspiegabile. Pensò che fossi pronto, abbastanza maturo per capire e imparare il metodo che utilizzava per addestrare le creature del cielo. In realtà, non lo ero, e l’unica cosa che capii è il significato di una frase che avevo sentito pronunziare spesso fra i falconieri a cui non avevo mai dato importanza: sfinire un’aquila».
  

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